Monica Valente, Medico oncologo, Istituto Di Oncologia, Policlinico di Monza.
Durante l’ultimo ASCO di Chicago (3-9 giugno 2011) si è parlato anche di neoplasie neuroendocrine: una sessione educazionale nella giornata del 6 giugno si è incentrata infatti sulle nuove acquisizioni in questa “nicchia” oncologica. Pur rientrando tra le patologie rare, le neoplasie neuroendocrine non sono poi così infrequenti nella pratica clinica, grazie soprattutto a una più attenta diagnostica isto-patologica. Gli interventi sono stati incentrati su tre tematiche: il trattamento medico dei tumori neuroendocrini del pancreas (PETs), dei tumori carcinoidi e il ruolo degli analoghi della somatostatina (SSTa).
I tumori neuroendocrini del pancreas
Grande risalto è stato dato al recente aggiornamento della classificazione di queste neoplasie, edita da WHO 2010, in cui vengono distinti tumori endocrini ben differenziati (NET 1), moderatamente differenziati (NET 2) e forme scarsamente differenziate (NEC) con le varianti a piccole e a grandi cellule, rivisitazione isto-patologica in cui si enfatizza l’indice proliferativo e la conta mitotica. Primo importante aspetto che emerge dalle prime due presentazione è la distinzione tra tumori endocrini di pertinenza pancreatica e il resto dei carcinoidi. Le neoplasie a primitività pancreatica presentano una storia naturale e un comportamento biologico, inteso anche come riposta alle terapie, diverso dagli altri. Matthew Kulke (Dana-Farber Cancer Institute) ha presentato i dati degli studi con inibitori TKIs (sunitinib, sorafenib e pazopanib) e con inibitori di mTOR (everolimus e temsirolimus) nei carcinoidi e nei PETs, riportando risultati decisamente migliori nei PETs.
Il lavoro di Raymond (NEJM 2011), trial randomizzato di fase III, ha dimostrato una migliore PFS nel braccio di trattamento con sunitinib (37.5 mg/die) vs placebo (11.4 vs 5.5 mesi). Lo stesso dicasi per lo studio RADIANT-3 (Yao, NEJM 2011), di fase III randomizzato (everolimus 10 mg/die vs placebo, PFS di 11.04 vs 4.6 mesi), a favore del braccio di trattamento. In entrambi gli studi non è stato dimostrato un vantaggio in termini di sopravvivenza globale. Il messaggio che emerge dai due lavori è che sia l’everolimus che il sunitinib dovrebbero essere utilizzati nei PETs in fase avanzata e in progressione.
Meno buone le notizie per quel che riguarda i trattamenti citotossici. I farmaci che hanno mostrato una certa attività; sono la “storica” streptozotoina e la temozolomide, ma si tratta di opzioni terapeutiche da utilizzare solo in seconda battuta. Per il futuro si spera nelle terapie biologiche di combinazione; a tal riguardo vi è un unico trial in corso, di fase II randomizzato, che contempla l’associazione di everolimus + octreotide +/- bevacizumab (trial CALG 80701).
I carcinoidi
Per quel che concerne il capitolo dei carcinoidi, come esposto da Emily Bergsland (Università della California, San Francisco), esistono diverse opzioni terapeutiche: analoghi della SSTa, terapia radiometabolica, inteferon alpha, agenti citotossici, inibitori VEGF e di mTOR. Ne è uscito ribadito il ruolo dell’octreotide in termini di miglioramento del TTP nelle forme sia funzionanti e non, come emerso dai risultati dello studio PROMID (Rinkie, JCO 2009), anche se al momento non si evince invece un beneficio in termini di OS. L’interferon alpha non ha sortito i risultati sperati, con RR < 5-12% a seconda dei diversi studi. La terapia radiometabolica sembra avere valenza solo nei casi fortemente positivi alla scintigrafia con analoghi della somatostatina, con risultati in termini di stabilità di malattia e controllo dei sintomi. Gli agenti citotossici, schemi di trattamento a base di streptozotocina e temozolomide, non hanno dato beneficio in termini né di PFS né di OS.
Per quanto riguarda i nuovi farmaci (sunitinib, pazopanib e sorafenib), è stato ribadito il loro ruolo nei PETs, mancando studi di fase III nei carcinoidi. L’unico studio con il bevacizumab attualmente in corso (SWOG-0518) è un trial di fase III randomizzato, di associazione octreotide LAR 20 + IFN alpha vs octreotide LAR 20 + bevacizumab (15 mg/kg, 3 w). Lo studio RADIANT-2, fase III randomizzato, everolimus + octreotide LAR 30 vs placebo + octreotide LAR 30, ha registrato un miglioramento della PFS nei carcinoidi, tuttavia non statisticamente significativa (16.4 vs 11.3; p: 0.026).
In conclusione, gli agenti biologici non sembrano essere i farmaci ideali nel trattamento dei carcinoidi, con esclusione dell’octreotide. Pertanto, la classe dei carcinoidi risulta essere – per così dire – “un problema” a seguito di fallimento di un trattamento con analoghi della SSTa. Vi sono quattro trial di fase III attualmente in corso, con diversi analoghi: Somatuline Depot vs placebo nelle sindromi da carcinoide, pasireotide LAR vs octreotide LAR nelle sindromi da carcinoide refrattarie, lanreotide Autogel vs placebo, octreotide LAR + IFN vs octreotide LAR + bevacizumab (SWOG 0518).
Gli analoghi della somatostatina
Ultimo intervento è stato quello di Martyn Caplin (Università di Londra), sul ruolo degli analoghi della somatostatina. È stato confermato il razionale del loro utilizzo nel controllo dei sintomi da sindrome, il beneficio in termini di stabilizzazioni di malattia in più del 50% dei pazienti e i risultati sostanzialmente sovrapponibili tra octreotide LAR e lanreotide Autogel. Gli analoghi della SSTa sono da considerarsi il trattamento standard delle neoplasie ben differenziate, con basso indice proliferativo e di piccole dimensioni, non suscettibili di chirurgia. E’ in studio il possibile ruolo delle terapie di combinazione di questi farmaci con le nuove molecole biologiche.
In conclusione, vorrei ricordare due studi presentati come poster del gruppo “Spanish Neuroendocrine Tumor Group”. Il primo, di fase II, prevede l’utilizzo di pazopanib (800 mg/die) a fallimento di altre terapie (analoghi della SSTa, anti-VEGF, inibitori di mTOr e chemioterapici). Lo studio, in corso, ha come endpoint primario l’overall clinical benefit (ORR+SD). Il secondo studio, di fase II, valuta l’associazione di sorafenib a basse dosi (200 mg bid, gg.1-5 a settimana) e bevacizumab (5 mg/Kg, ogni 2 settimane). Sono stati arruolati 44 pazienti; la PFS riportata è stata 12.4 mesi con ORR pari a 9.8%.