
Secondo Fortunato Ciardiello, Presidente eletto dell’ESMO, il primo fattore prognostico di un malato oncologico è la sua prima visita. A tal punto, infatti, è rilevante il primo incontro con un terapeuta: una comunicazione ben condotta può rivelarsi decisiva per la corretta diagnosi e la sua comprensione da parte della persona sofferente, nonché per le successive tappe del percorso terapeutico. La personalizzazione delle cure oncologiche non può consistere soltanto nella pur rilevantissima “sartorializzazione” delle terapie a seconda del profilo genetico della persona malata, sempre più vicina grazie all’introduzione dei nuovi farmaci “intelligenti”, ma deve tener conto anche della umanizzazione e profilazione personale della comunicazione alla persona malata e ai suoi familiari.
Grazie alla letteratura scientifica, sappiamo che la maggior parte dei pazienti oncologici va incontro ad un disagio psicologico ed a problemi sociali causati alla mancanza di un approccio multidisciplinare che tenga conto delle difficoltà nell’affrontare la malattia e di aderire ai trattamenti. Questi ultimi sono, per fortuna, sempre più efficaci, ma continuano a presentare tossicità ed effetti collaterali non irrilevanti. Tuttavia, le più forti criticità sono riconducibili ad una insufficiente informazione sui diversi aspetti della patologia da cui si è affetti e ad una inadeguata comunicazione con l’équipe terapeutica.
La comunicazione medico-paziente è dunque alla base dell’assistenza oncologica poiché sinergica al conseguimento di obiettivi principali, come la soddisfazione del malato, il suo coinvolgimento nel processo decisionale, la partecipazione agli studi clinici, il miglioramento dei sintomi e del distress psicologico . Una porzione considerevole dei malati di cancro, infatti, sviluppa ansia e depressione e ritiene di non ricevere informazioni sufficienti sui diversi aspetti della propria malattia. Occorre dunque saper identificare i malati più vulnerabili per offrire loro un adeguato supporto psicosociale, in grado di aiutarli nella fase di accettazione e di adattamento alla malattia. Un distress psicologico non riconosciuto e non appropriatamente trattato comporta un aggravio di sofferenza per il malato e, compromettendo la comunicazione con il medico, finisce con l’interferire con i percorsi di cura.
Per questo motivo è necessario che il medico, insieme all’équipe multidisciplinare di sostegno al paziente, sia preparato nel saper individuare gli argomenti da affrontare in base al singolo interlocutore, al fine di riuscire a comunicare in modo piano e comprensibile le informazioni concernenti la diagnosi e la prognosi. Perché favorire l’approccio multidisciplinare? Perché è impensabile – ha sostenuto di recente Carmine Pinto, Presidente di AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) – che l’oncologo medico possa svolgere da solo questa decisiva funzione. Preparare il malato al suo percorso di cura, favorire la sua adesione terapeutica e aiutarlo nella nuova situazione rappresentano aspetti fondamentali da non sottovalutare per conseguire la sua guarigione. Fornire corrette e precise informazioni ai pazienti è uno dei più importanti elementi della ‘supportive care’ in oncologia in tutte le fasi della malattia ed è compito che tocca a tutte le figure professionali coinvolte nel percorso di cura, dal personale di nursing, al servizio di psico-oncologia, oltre che agli oncologi.
Una vasta revisione sistematica (cinquantasette studi, volti ad indagare i bisogni non soddisfatti di soggetti malati di tumore) ha stabilito che per la persona malata il desiderio di ricevere informazioni è tra i prevalenti . A tal fine è importante che gli oncologi e gli altri operatori sanitari verifichino le risorse informative disponibili per i pazienti sia dal punto di vista del loro contenuto, che deve essere necessariamente completo e basato su evidenze scientifiche, sia dal punto di vista della forma e dello stile, chiaro e semplice per il destinatario. Il passaggio di informazione tra il terapeuta e la persona malata deve essere però biunivoco: non si può non tener conto che spesso il malato è impreparato alla nuova situazione e potrebbe non essere in grado di rivolgere le giuste domande al suo oncologo.
In un film ormai di qualche anno fa, Caro diario, Nanni Moretti, guarito da un linfoma di Hodgkin, notava sul proprio taccuino: «I medici sanno parlare, ma non sanno ascoltare». Ovviamente, non sempre è vero, ma è bene far propri quegli strumenti che favoriscono l’ascolto e il confronto. Come i questionari, per esempio, che rappresentano un valido strumento per suggerire al paziente domande e spunti di riflessione da sottoporre al proprio oncologo: veri e propri elenchi di possibili domande concernenti la diagnosi, la prognosi, le opzioni terapeutiche, le figure professionali di riferimento, la preparazione alla terapia, i costi della malattia e materiale informativo di riferimento. Diversi studi hanno dimostrato che una lista di quesiti, se utilizzata in accordo con l’oncologo, può aiutare il malato ad assumere un ruolo attivo nel dialogo durante la visita medica.
Anche nel recente passato, la comunicazione medico-paziente non sempre è stata considerata con la dovuta importanza. Al punto che non è neppure insegnata nei corsi di laurea per medici e infermieri. Eppure, è stato ampiamente dimostrato che le competenze comunicative dei medici possono essere apprese e affinate attraverso interventi formativi mirati, che si pongano l’obiettivo di una gestione ottimale della persona malata, dalla sua presa in carico, fino al completamento dell’iter diagnostico-terapeutico. Percorsi indispensabili per aumentare le capacità comunicative del personale medico al fine di comprendere meglio le lacune informative del paziente e per rispondere in modo adeguato ed esauriente ai suoi bisogni. Si sa che la corretta informazione è correlata ad una migliore qualità di vita della persona sofferente, vero e ultimo obbiettivo di ogni cura.
Lucia Oggianu
Bibliografia
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