Marco L. Bellani, Dipartimento di Psichiatria, Master di II livello in Psiconcologia, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Seconda Università degli Studi di Napoli.
Secondo la definizione di “cure palliative” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il controllo delle problematiche psicologiche, sociali e spirituali dei pazienti e delle loro famiglie è parte integrante del piano di assistenza e merita la medesima attenzione rivolta ai problemi fisici. Ciò implica la presenza di psiconcologi (psichiatri e psicologici), adeguatamente formati e competenti, nelle équipe multidisciplinari degli hospice o delle unità di cure palliative in qualità di consulenti o di clinici strutturati.
Cosa fare?
Nell’ambito della clinica psiconcologica ci sono diversi modelli di intervento psicoterapico rivolti al trattamento dei sintomi e delle problematiche psicologiche che affliggono le persone affette da cancro, anche in fase avanzata o terminale di malattia. In questo ambito il lavoro psiconcologico deve confrontarsi con almeno due ordini di fattori: il primo è che le teorie che guidano i diversi approcci terapeutici non sono l’espressione di ciò che accade nella realtà; il secondo è che paziente e terapeuta sono chiamati a misurarsi con il tempo che resta.
È evidente che la fase di malattia in cui si trova la persona affetta da cancro influenza notevolmente l’applicabilità del modello di intervento e delle tecniche terapeutiche utilizzabili, nonché la portata degli obiettivi che l’intervento stesso si propone. Tra gli altri, il fattore tempo assume un’importanza decisiva. In modo ottimale, gli interventi psicoterapeutici con pazienti in fase avanzata o terminale andrebbero iniziati quando ancora non si è instaurato il declino, più o meno rapido, sul piano fisico, cognitivo, funzionale ed emozionale. D’altra parte, è anche vero che non sempre il tempo a disposizione è quello preventivato dal paziente e dal terapeuta: l’esperienza clinica insegna che anche malati che si trovano in uno stato di stabilità delle loro condizioni di salute possono andare incontro a un declino repentino e non previsto.
Il sopraggiungere di queste nuove perdite, nonché lo smarrimento e la sofferenza che ne conseguono, inducono il terapeuta a rimodulare l’intervento psicologico con lo scopo di aiutare il malato a trattare le nuove emozioni e ad affrontare paure e angosce che sembravano assopite.
Parafrasando quanto scrisse Eliana Adler Segre, l’intervento psicologico non ha pertanto come
finalità quella di riconoscere e di modificare le manifestazioni patologiche del malato – che non può essere guarito dalla morte e sottratto all’ineluttabilità del suo destino – ma quello di aiutare la persona ad accettare la realtà, ovvero a prendere coscienza di una dimensione che trascende la volontà e gli aspetti spazio-temporali dell’esistenza umana.
A tale presa di coscienza si oppone un altro fattore che è sempre protagonista nel lavoro terapeutico con il morente: l’attaccamento alla vita, ovvero l’istinto più radicato della natura umana, che porta a perpetuare l’integrità della forma e a vivere con innato terrore la solitudine e la perdita di ciò che è familiare, alimentando la lacerante tensione tra la consapevolezza dell’ineluttabilità della morte e il desiderio di continuare a vivere.
Il compito per il malato e per il terapeuta sarebbe certamente più agevole se l’essere umano riuscisse a guardare con realismo e accettazione al proprio futuro, qualunque esso sia, oppure se egli potesse uscire dall’oblio e riconoscere che la vita corporea non è il bene supremo, perché quel che più importa ed è veramente benefico è lo svincolarsi dalle limitazioni di un corpo ormai malato: sia che dopo questa vita ci sia il nulla, sia che ci sia un’altra vita, la morte è quantomeno la liberazione dal male fisico, dal dolore e dalla sofferenza. Chi lavora terapeuticamente con malati in fase avanzata o terminale di malattia ha imparato che tra i suoi compiti c’è anche quello di aiutare il paziente a vivere con dignità e coraggio la vita che ancora rimane, quello di ridargli speranza e fiducia trasformando in lui le paure, quello di alleviargli le sofferenze e di accrescere la capacità di accettare con consapevolezza quanto il futuro gli riserva, quello di restaurare rapporti di armonia con la famiglia, gli amici, l’ambiente. Si tratta certamente di compiti non facili e con certi malati neppure possibili.
Tuttavia, secondo alcuni autori, lo psicoterapeuta dovrebbe spingersi oltre tali obiettivi, per quanto importanti, ponendosi, o proponendosi, come “intermediario” tra presente e futuro, tra la vita e la morte, tra il malato e l’ignoto, capace di aiutare l’altro a indagare e a cercare una risposta personale alle eterne domande dell’uomo: “Donde vengo? Chi sono? Dove vado?”.
L’ultima domanda (“Dove vado”?), per quanto non disgiunta dalle altre due, è quella che più da vicino coinvolge tutti i componenti dell’équipe terapeutica, non tanto come “tecnici esperti” quanto piuttosto come persone capaci di stare accanto alla persona che deve morire. Detta domanda offre altresì l’occasione di inaugurare un diverso atteggiamento nei confronti della malattia, della guarigione e della morte, riconoscendo che tutto muove dalla grande legge universale di causa ed effetto: i terapeuti agiscono secondo il processo della restituzione, per il quale si tratta di saper ridare al malato, quando è possibile, quanto gli occorre per affrontare nuovamente la vita nel corpo e nel mondo fisico, oppure, quando ciò non è più possibile, di sapere restituire, a tempo opportuno, il corpo alla fonte degli elementi che lo compongono. Oggi, questa restituzione è coatta e paventata, incute timore e induce a pretendere con forza la salute del corpo fisico, accentuandone l’importanza, e facendo ritenere che la cosa preminente fra tutte sia il prolungamento dell’esistenza terrena.
Se, come ha scritto Eissler, è importante che il malato grave o morente venga aiutato a vivere la morte come un evento reale e naturale, allora il terapeuta ha il dovere di chiedersi con quali modalità egli può operare per conseguire tale obiettivo.
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Testo tratto dal primo numero monografico di Noos dedicato alla Clinica Psiconcologica