Antonio Frassoldati, Direttore Oncologia clinica, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara.
La FDA ha recentemente deciso di ritirare la autorizzazione all’uso di Bevacizumab per il trattamento del carcinoma mammario metastico in prima linea, in associazione con paclitaxel, alla luce del rapporto benefici-rischi non soddisfacente emerso dagli studi clinici.
Una analoga presa di posizione non è stata presa da EMA ed AIFA, e pertanto l’uso in Europa ed in Italia è tuttora possibile l’impiego del farmaco.
La decisione dell’FDA ha suscitato molte discussioni, in quanto in tutti gli studi in cui bevacizumab è stato impiegato nel carcinoma mammario è stato di fatto raggiunto l’end-point principale, rappresentato dal Progression Free Survival (PRS). È altrettanto vero che in nessuno studio si è osservato un beneficio in sopravvivenza, e questo è l’aspetto principale su cui si è basata la decisione FDA, insieme a quelli della incidenza di effetti collaterali (per lo più ben gestibili) e dei costi (sicuramente elevati). E proprio sull’aspetto degli end-point credo sia opportuna una riflessione.
La sopravvivenza è sicuramente l’obiettivo primario a cui si dovrebbe guardare anche nella malattia metastatica, ma l’orizzonte del carcinoma mammario è molto variato negli ultimi anni, in rapporto alla disponibilità di numerosi farmaci, ed è esperienza comune osservare lunghe sopravvivenze in pazienti trattare con molte linee di terapia. La possibilità di osservare differenze in sopravvivenza (considerando che si tratta sempre di piccoli benefici incrementali rispetto a quanto già si può ottenere) è quindi divenuta più difficile, per gli effetti dei trattamenti successivi che possono modificare l’andamento della malattia. È stato stimato che per osservare benefici in sopravvivenza, posto che i vantaggi sarebbero comunque di entità bassa, sarebbero necessari studi su migliaia di pazienti, oggi non praticabili. Sappiamo comunque che il PRS è passato da 5-9 mesi del trattamento senza bevacizumab ai 9-12 mesi circa del trattamento con il farmaco biologico, così come sappiamo che le risposte cliniche obiettive risultano sicuramente di entità non inferiori (ed anzi forse superiori, almeno in confronti indiretti) a quelle ottenibili con altri trattamenti: questi obiettivi possono, in alcune condizioni, essere considerati rilevanti nella malattia metastatica, anche se il loro valore come surrogato di sopravvivenza non è dimostrato. È quindi corretto affermare che il farmaco è attivo, che la sua efficacia è di entità modesta, e che il suo impiego deve essere valutato in un contesto di significatività clinica e di costo-efficacia, in particolare in condizioni in sui siano presenti alternative terapeutiche.
Un altro punto a sfavore dell’uso di bevacizumab è la mancanza di indicatori predittivi di efficacia, al contario di quanto si osserva (caso per la verità ancora unico) per HER2. La impossibilità di selezionare una popolazione di pazienti in cui il farmaco possa svolgere un ruolo fondamentale amplifica senz’altro il problema del rapporto costo-efficacia, ed ha certo giocato, insieme alla incidenza degli effetti collaterali (forse più sentito in USA per la elevata incidenza delle patologie cardio-vascolari), nel giudizio FDA.
La presa di posizione americana è comunque importante, e, nonostante oggi l’uso del bevacizumab nel carcinoma mammario sia possibile, credo richiami ad una attenzione ancora maggiore per un uso appropriato, soprattutto in quelle pazienti per le quali esistano alternative terapeutiche, e per le quali sia ipotizzabile, per presenza di comorbidità, un possibile impatto sulla sicurezza.