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ASCO 2011: riflessioni evidence-based sul carcinoma renale

By 2 Maggio 2011Aprile 7th, 2021No Comments
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Camillo Porta, S.C. di Oncologia Medica, Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico San Matteo di Pavia.

Anche quest’anno, nel corso dell’annuale Genitourinary Cancers Symposium dell’ASCO, che si è svolto in Florida (Orlando, 17-19 febbraio 2011), sono stati presentati dati di indubbio interesse per la comunità oncologica. Quella che segue vuole essere una breve selezione critica (conseguentemente chiosata) delle comunicazioni più rilevanti effettuate nelle sessioni dedicate al carcinoma renale.

Carcinoma metastatico refrattario all’anti-VEFG: che fare?
Renal EFFECT trial: il sunitinib con schedula modificata
In prima linea, sorafenib in monoterapia vs l’associazione con peptibody
La querelle sul trattamento di seconda linea

Carcinoma metastatico refrattario all’anti-VEFG: che fare?

Primary anti-VEGF refractory metastatic renal cell carcinoma (mRCC): clinical characterization, risk factors, and subsequent therapies, presentato da Danny Heng e Coll., a nome dell’International metastatic Renal Cell Carcinoma data-base consortium [abstract]

Questo interessante lavoro multicentrico, condotto prevalentemente in centri statunitensi e canadesi, prendeva in considerazione, retrospettivamente, 272 pazienti (pari al 26% dei 1056 pazienti totali considerati) definibili come primary refractory ad una terapia sistemica di prima linea, nella stragrande maggioranza dei casi rappresentata dal sunitinib (203 casi).
Le definizione di primary refractory utilizzata ai fini di questo studio, criticabile, ma certamente sensata, faceva riferimento a pazienti che avessero ottenuto, come miglior risposta, solo una progressione di malattia secondo i criteri RECIST.
All’analisi multivariata dei fattori predittivi di progressione, sono emersi – abbastanza prevedibilmente – le seguenti caratteristiche clinico-laboratoristiche: un Performance Status (secondo la scala di Karnofsky) < 80%, un intervallo tra la diagnosi e l’inizio del trattamento inferiore ad un anno, nonché la presenza di neutrofilia, anemia e trombocitosi.
Non sorprende, quindi, che la maggioranza dei pazienti (55%) appartenessero alla categoria prognostica “intermedia” (secondo la classificazione di Heng, versione rivisitata ed attualizzata per l’era delle target therapies del classico sistema prognostico di Motzer), con solo il 6% dei pazienti classificabili come a “buona” prognosi.
Conseguentemente, sia la Progression-Free Survival (PFS), che la sopravvivenza globale (Overall Survival – OS) sono risultate drammaticamente modeste, soprattutto se confrontate con quelle dei pazienti che non erano ricaduti nella definizione di primary refractory: 2.4 vs 11 mesi, e 6.9 vs 29 mesi, rispettivamente.
Un altro dato estremamente interessante, ancorché scoraggiante, è stato quello relativo alla bassa percentuale di questi pazienti che hanno ricevuto una seconda linea di trattamento (solo il 40%), ed alla scarsissima efficacia di questa ulteriore terapia sistemica.
Sorprendentemente, da un certo punto di vista, i pazienti che hanno ricevuto un inibitore di mTOR, come trattamento di seconda linea, hanno presentato un tasso di risposte obiettive e, soprattutto, una PFS ed una OS addirittura peggiori rispetto a quei pazienti che sono stati trattati con un altro inibitore del pathway di VEGF e dei suoi recettori (PFS = 2.8 vs 2 mesi; OS = 7.9 vs 4.7 mesi)

figura 1

Questo studio, pur con tutti i limiti derivanti dalla sua natura retrospettiva (per cui deve essere considerato, solo ed esclusivamente, come uno studio hypothesis-generating), merita un’attenta analisi anche perché, volutamente, si è concentrato su quella, fortunatamente ridotta, popolazione di sfortunati pazienti che è destinata a non ottenere alcun beneficio da alcuna terapia di prima linea.
La percentuale di questi pazienti, ricavabile dal data-base preso in considerazione, appare assolutamente in linea con quanto atteso sulla base dei dati di Disease Control Rate (DCR – inteso come somma delle risposte obiettive e delle stabilizzazioni di malattia) ricavabili dagli studi registrativi dei diversi farmaci a bersaglio molecolare attualmente a nostra disposizione.
Che messaggi portare a casa da questa analisi?
Sicuramente la pessima prognosi di questi pazienti, destinati, non solo a fallire una prima linea di terapia, ma anche – nella stragrande maggioranza dei casi – a non aver alcun beneficio da qualsivoglia terapia successiva, spesso addirittura dimostratasi non fattibile.
In seconda battuta, l’impressione (data la natura retrospettiva di questo studio, non si può parlare d’altro che di impressione) che l’utilizzo, in seconda linea, di un farmaco con un meccanismo d’azione diverso da quello utilizzato in prima linea (nel caso specifico, un inibitore di mTOR) non comporti alcun beneficio.
Ma soprattutto, questo studio sottolinea la necessità di meglio caratterizzare molecolarmente i meccanismi di resistenza – nel caso specifico, primaria – ai farmaci attualmente a nostra disposizione, al fine di identificare strategie terapeutiche mirate per questa specifica popolazione di pazienti.

Renal EFFECT trial: il sunitinib con schedula modificata

Randomized phase II multicenter study of the efficacy and safety of Sunitinib on the 4/2 versus continuous dosing schedule as first-line therapy of metastatic renal cell carcinoma: renal EFFECT trial”, presentato da Robert J. Motzer e coll. [abstract]

Probabilmente il più atteso tra gli studi presentati quest’anno al “Genitourinary Cancers Symposium”, si proponeva di confrontare, nell’ambito di uno studio randomizzato di fase II, la classica schedula del sunitinib (50 mg al giorno, 4 settimane, ogni 6), con una schedula modificata (37,5 mg al giorno, dosaggio continuo). L’idea sottostante il disegno di questo studio è che la schedula modificata potesse risultare equi-efficace, ma maggiormente tollerata, rispetto a quella “classica”.
Un totale di 292 pazienti sono stati pertanto arruolati un questo studio, che presentava criteri di inclusione ed esclusione del tutto sovrapponibili a quelli dello studio registrativo del sunitinib.

I risultati di questa ricerca mostrano la superiorità – in termini di efficacia – della schedula classica rispetto a quella modificata, in un certo senso confermando i dati di farmacocinetica recentemente pubblicati da Houk e Coll., che hanno evidenziato una significativa correlazione tra l’area sotto la curva (AUC) del sunitinib e la sua efficacia. In effetti, la Time To Progression (TTP) evidenziata in questo studio è risultata pari a 9.9 mesi per la schedula classica, vs i 7.1 mesi della schedula modificata, con una OS pari a 23.1 vs 23.5 mesi, rispettivamente.
Inoltre, in maniera decisamente più sorprendente, la schedula modificata non si è rivelata nemmeno meglio tollerata rispetto a quella classica, stressando in tal modo l’estrema rilevanza pratica delle pause nel permettere ai pazienti di recuperare dalle tossicità indotte dal sunitinib.

L’altro aspetto che merita un commento è l’inattesa entità della TTP, inferiore rispetto alla PFS osservata nello studio registrativo (pur con tutti i limiti relativi al confronto tra due end-points tra loro simili, ma non identici, ed al confronto tra uno studio di fase II, per quanto anch’esso randomizzato, con uno di fase III).
Sollecitato sull’argomento da una domanda specifica, lo stesso Motzer non ha saputo dare un’interpretazione convincente.
Come già accaduto in oncologia, questa discrepanza suggerisce come il beneficio reale di qualsiasi farmaco oncologico tenda a ridursi nel tempo, man mano che le popolazioni di pazienti considerate nei diversi studi clinici si discostano sempre a più a quelle osservate nella pratica clinica quotidiana, al netto dell’inevitabile bias di selezione che, inevitabilmente, grava anche sui migliori studi registrativi.

In prima linea, sorafenib in monoterapia vs l’associazione con peptibody

AMG386 in combination with Sorafenib in patients (pts) with metastatic renal cell cancer (mRCC): a randomized, double-blind, placebo-controlled, phase II study, presentato da Brian I. Rini e coll. [abstract]

Un altro studio estremamente atteso tra quelli presentati ad Orlando, era lo studio relativo all’inibitore delle angiopoietine, AMG 386. Questo farmaco – primo della sua classe – è un cosiddetto “peptibody”, ovvero una proteina di fusione tra un peptide ed una frazione Fc anticorpale, in grado di esplicare un’attività antiangiogenetica, impedendo l’interazione dell’angiopoietina-1 e -2 con i rispettivi recettori Tie-1 e -2 situati a livello delle cellule endoteliali. In questo studio randomizzato di fase II, 152 pazienti affetti da carcinoma renale avanzato in prima linea di trattamento sono stati randomizzati in proporzione 1:1:1 a ricevere o il sorafenib (somministrato secondo la schedula usuale, 400 mg b.i.d., continuativamente) associato ad un placebo, o il sorafenib associato a due diversi dosaggio di AMG 386 (3 o 10 mg/Kg, somministrati per via e.v. ogni settimana). Sorprendentemente, lo studio in oggetto non ha mostrato alcun vantaggio nell’associare l’AMG 386 al sorafenib, rispetto al solo sorafenib (+ placebo) in pazienti in prima linea di trattamento; in effetti, la PFS media osservata per i tre gruppi (sorafenib + placebo, sorafenib + AMG 386 a basso dosaggio, o sorafenib + AMG 386 ad alto dosaggio) è risultata pari a 9.0, 8.5 e 9.0 mesi, rispettivamente Di contro, l’associazione tra i due farmaci ha determinato un lieve incremento nel tasso delle risposte obiettive (24% vs 37% vs 38%), a conferma di una certa quale attività antitumorale dell’AMG 386 di per sé, di contro ad una tossicità non chiaramente cumulativa. Questo studio suggerisce alcune importanti riflessioni.

figura 2

Innanzitutto, si può ragionevolmente pensare come, in una neoplasia come il carcinoma renale, caratterizzata geneticamente (a causa della frequente delezione/mutazione del gene oncosoppressore di Von Hippel-Lindau) da un’incrementata angiogenesi VEGF-dipendente, altre strategie antiangiogenetiche – che non comportino l’inibizione dell’asse VEGF/VEGFR – possano non essere così efficaci come inizialmente sperato.
In seconda battuta, il ruolo del sorafenib esce, se possibile, rafforzato da questo studio; il sorafenib, infatti, dopo essere stato registrato sulla base dei risultati dello studio TARGET, in cui è stato confrontato contro placebo in pazienti pre-trattati prevalentemente con citochine, non si è dimostrato superiore all’interferone (IFN) in uno studio randomizzato di fase II in pazienti trattati in prima linea; in questo studio, in particolare, la PFS osservata nel braccio di trattamento con il sorafenib, oltre che non superiore a quella osservata nei pazienti trattati con IFN, è risultata particolarmente – ed inaspettatamente – bassa: solo 5,7 mesi (vs 5,6 per l’IFN).
Proprio per questo motivo, l’utilizzo del sorafenib in prima linea è usualmente limitato, anche in accordo con quanto riportato in svariate linee guida, solo a casi selezionati.
Lo studio randomizzato di fase II del sorafenib contro l’IFN è stato tuttavia oggetto di svariate critiche, legate ad una popolazione di pazienti arruolati particolarmente compromessa (in termini di numero medio di siti metastatici), nonché alla scelta del braccio di controllo, rappresentato dall’allora standard di trattamento (l’IFN, appunto), che fa di questo studio uno studio di fase III mascherato e sottodimensionato.
La PFS, di 9 mesi, osservata nel braccio sorafenib da solo nello studio presentato da B. Rini, riporta quindi il sorafenib molto vicino agli altri tre farmaci attualmente registrati per la prima linea di trattamento del carcinoma renale avanzato (gli inibitori multichinasici sunitinib e pazopanib e l’anticorpo monoclonale anti-VEGF, bevacizumab – utilizzato tuttavia assieme all’IFN).

La querelle sul trattamento di seconda linea

Per concludere, prenderò brevemente in considerazione la lettura effettuata, a conclusione delle sessioni dedicate al carcinoma renale, da Bernard Escudier ed intitolata Second-line therapy: what we have and what we need to customize treatment (PDF).
In questa brillante e provocatoria lettura, Escudier ha affrontato, per così dire a viso aperto, la scottante querelle relativa alla scelta del trattamento di seconda linea.
I punti salienti toccati da Escudier, che meritano di essere meditati con grande attenzione, sono i seguenti:

  1. le attuali linee guida per la terapia di seconda linea attribuiscono un livello 1 di evidenza solo all’everolimus, come diretta conseguenza del fatto che solo questo inibitore di mTOR è stato testato, in questo specifico setting, all’interno di uno studio clinico randomizzato di fase III; non si può tuttavia dimenticare che lo studio in oggetto, il RECORD-1, non è un vero e proprio studio di seconda linea, dal momento che la maggioranza dei pazienti arruolati (ben il 79%) aveva ricevuto più di una precedente linea di terapia. Non va inoltre dimenticato come la scelta del placebo come braccio di controllo, per quanto formalmente ineccepibile, non ci risolve il dubbio relativo alla reale superiorità dell’everolimus nei confronti di un altro inibitore delle tirosin-chinasi in seconda linea;
  2. la definizione di resistenza agli inibitori delle tirosin-chinasi rimane una definizione del tutto arbitraria (con la sola eccezione – forse – dei pazienti primary refractory); solo una miglior e più approfondita conoscenza biologica e molecolare di questi meccanismi potrà aiutarci ad effettuare scelte terapeutiche biologicamente adeguate;
  3. l’evidenza attualmente disponibile sembra suggerire come i diversi inibitori delle tirosin-chinasi non siano necessariamente simili tra loro (soprattutto in termini di affinità recettoriale e di spettro di inibizione);
  4. abbiamo disperatamente bisogno di biomarkers in grado di predire l’efficacia dei diversi trattamenti disponibili per la seconda linea di terapia, al fine di aiutarci ad individualizzare la nostra scelta terapeutica in questo difficile setting;
  5. solo il completamento dei numerosi studi di seconda linea attualmente in corso ci permetteranno di effettuare scelte terapeutiche realmente evidence-based, anche se questi studi dovranno essere analizzati e “dissezionati” con estrema cura ed altrettanto rigore scientifico.

In attesa dei risultati di questi studi a venire, non possiamo che accettare il fatto che, ancora una volta, sono molte più le cose che dovremmo sapere e che invece non sappiamo, rispetto a quelle di cui possiamo sentirci assolutamente sicuri.