All’Istituto Tumori di Milano si è svolto un evento di formazione scientifica dedicato alle neoplasie neuroendocrine (NETs), con particolare attenzione agli analoghi della somatostatina nell’attuale scenario terapeutico caratterizzato dalle più recenti terapie a bersaglio molecolare.
La giornata di lavori, intitolata appunto “Gli analoghi della somatostatina nell’era della target therapy”, ha riunito alcuni tra i maggiori specialisti italiani per fare il punto sui diversi aspetti di questo tema: non solo il ruolo della somatostatina, farmaco “storico” ma ancora attuale nella cura dei NETs, ma anche l’evoluzione epidemiologica di una patologia non più così rara, la necessità di un approccio multidisciplinare, l’importanza della specializzazione del Centro di riferimento per la cura e l’esperienza del clinico nella gestione della patologia.
Il video dell’evento
Dal punto di vista epidemiologico – fa notare l’oncologo Roberto Buzzoni (Istituto Nazionale Tumori, Milano) – è necessario innanzitutto un nuovo inquadramento della patologia che oggi registra una maggior diffusione, dovuta anche ai progressi nella diagnostica: “In Italia l’incidenza è in continuo aumento: circa 24mila pazienti, con 2.500/2.700 nuovi casi l’anno, generalmente caratterizzati da un profilo eterogeneo ed un decorso meno aggressivo rispetto ad altri tumori”.
Per questa patologia, sottolinea Buzzoni , la somatostatina riveste ancora un ruolo importante, come dimostrano gli studi di fase III Promined e Clarined, effettuati su pazienti affetti da tumore neuroendocrino sia in presenza che in assenza della caratteristica sindrome carcinoide. Secondo tali studi, i derivati della somatostatina nelle formulazioni a lento rilascio sono efficaci nel migliorare la qualità di vita, la risposta biochimica (ossia i livelli di cromogranina) e l’attesa di sopravvivenza. “Su quest’ultimo aspetto – precisa Buzzoni – non si hanno ancora dati così netti, ma il sentore è positivo”.
Utilizzati nel trattamento dei tumori neuroendocrini da oltre 20 anni, pur non riducendo solitamente la malattia in termini di dimensioni, hanno il vantaggio di controllarne i sintomi peculiari conservando al malato una buona qualità di vita. Lo ribadisce Filippo De Braud (Istituto Nazionale Tumori, Milano), sottolineando il senso di questa giornata: “tenere viva l’attenzione su una patologia che rischia di essere “misconosciuta”. Il messaggio più importante è la cooperazione fra le diverse figure coinvolte (il singolo farmaco costituisce una parte nel processo di cura, ma non c’è nessun elemento che da solo può dirsi ‘chiave’”), che sul piano metodologico si traduce nella necessità di sviluppare disegni di studi che considerino la strategia terapeutica e non il solo trattamento”.
Il bisogno di un approccio multidisciplinare alla patologia è peraltro un tema di grande attualità percepito dall’oncologia nel suo insieme, che origina dalla necessità di guadagnare una visione del paziente a 360 gradi, che tenga quindi conto di una serie di problematiche eterogenee, ma connesse alla malattia oncologica. “Nel caso di patologie complesse, sia dal punto di vista diagnostico che sintomatologico e terapeutico, come i tumori neuroendocrini – commenta Giuseppe Procopio (Istituto Nazionale Tumori, Milano), fra i coordinatori dell’evento – un approccio integrato che consideri la cooperazione di più figure è addirittura essenziale”. Dal chirurgo, che ha un ruolo decisivo nella possibilità di guarigione della patologia, all’endocrinologo, che spesso riconosce i sintomi in una fase più precoce; dall’oncologo, con le sue terapie, al medico di medicina nucleare e all’anatomopatologo, che consente una diagnosi più accurata grazie ad elementi prognostici decisivi per la scelta terapeutica.
L’istanza multidisciplinare si riflette nella struttura stessa del convegno che, entrando nel vivo, ha inanellato sessioni animate dalle varie figure specialistiche coinvolte nella gestione dei NETs. A cominciare da quella dedicata agli aspetti diagnostici dei tumori neuroendocrini, in particolare ai fattori predittivi di risposta al trattamento con gli analoghi della somatostatina.
“Il ruolo dell’anatomopatologo è basilare per queste patologie neoplastiche che sono molto simili fra loro per sintomatologia e trattamento – commenta Massimo Milione (Istituto Nazionale Tumori, Milano) – Le informazioni che possiamo fornire rappresentano il discrimine fra queste patologie assai simili e sono gli spiragli attraverso cui il clinico studia e determina l’approccio terapeutico”.
La somatostatina, insieme ai trattamenti ormonali, rappresenta nella storia dell’oncologia un esempio di quello che in chiave moderna è chiamata “target therapy”. È l’autorevole punto di vista diMarco A. Pierotti, Direttore scientifico dell’Istituto Tumori di Milano: “Terapie non più basate su un concetto di tossicità differenziata sul tumore rispetto alle cellule normali dei farmaci citotossici, ma un meccanismo d’azione basato sulle caratteristiche della cellula tumorale”. Nel caso dei NETs, caratterizzati dall’espressione del recettore per la somatostatina, tale proprietà biologica sarebbe utilizzata in due diverse maniere: come biomarcatore per definire l’appropriatezza della terapia e per determinare il bersaglio della terapia stessa.
L’analogo della somatostatina sarebbe dunque una target therapy? “Di fatto agisce anch’esso sui recettori della somatostatina di tipo 2 e di tipo 3 – spiega l’oncologa Sara Pusceddu (Istituto Nazionale Tumori, Milano) – ma si discosta da questi trattamenti e dalla chemioterapia classica per il profilo di tossicità estremamente basso che, unito all’efficacia anti proliferativa, lo rende un farmaco cardine per i pazienti neuroendocrini, caratterizzati da una malattia indolente che necessita di trattamenti a lunga durata”.
Nonostante il loro utilizzo siaad oggi “datato”, tali farmaci sono un mondo ancora tutto da scoprire. “Le conoscenze sulla biologia del recettore della somatostatina, che rappresenta il target della nostra terapia – aggiunge l’endocrinologo Antongiulio Faggiano (Università degli Studi Federico II di Napoli) – sono ancora in via di sviluppo: stiamo caratterizzando il significato del recettore in questi tumori e nuove informazioni potrebbero autorizzare un diverso utilizzo, magari con un dosaggio più alto di quello attuale”.
Nell’ottica integrata che guida l’evento,non sfugge all’attenzione il ruolo della chirurgia, che con le sue conquiste ha cambiato radicalmente la storia delle neoplasie neuroendocrine. Tra le tecniche chirurgiche in questo senso rivoluzionarie, balza in primo piano il trapianto di fegato. “La nostra esperienza nelle metastasi epatiche da NETs ci ha consentito di individuare dei criteri per valutare i pazienti da sottoporre al trapianto di fegato ottenendo un certo beneficio”, racconta Jorgelina Coppa (Istituto Nazionale Tumori, Milano). Sono pazienti che, a differenza che in passato (quando si trapiantava il paziente come estrema ratio), possono accedere all’intervento se giovani, affetti da malattia solo a livello epatico e con tumore primitivo già rimosso, e derivante solo dal sistema portale. “In questo subset – prosegue il chirurgo – abbiamo osservato un’ottima sopravvivenza, intorno al 90% a 10 anni, ed un’ottima desease free survival”.
Tra i punti cruciali del convegno emerge anche l’importanza della specializzazione del centro di riferimento per la cura dei tumori neuroendocrini e dell’esperienza del clinico per la gestione della patologia.
Infatti, nel caso di patologie come i NETs, che richiedono tecnologie di medicina nucleare e al tempo sono caratterizzate da una bassa frequenza epidemiologica, l’importanza della specializzazione di un centro può misurarsi, secondo il Direttore Scientifico Pierotti, su due principali parametri: “la presenza di un’attiva ricerca che porti l’innovazione rapidamente al letto del paziente, con successi clinici maggiori; una casistica numericamente significativa che garantisca al paziente la miglior gestione possibile della patologia”.
Del resto non è un caso che esistano certificazioni europee (27 nel continente) assegnate da enti come l’Associazione dei Tumori Neuroendocrini, ad ulteriore garanzia di appropriatezza delle diagnosi e delle terapie che vengono fornite.
“Mi occupo dei tumori neuroendocrini dal 1966 e ho avuto modo di accumulare un’ampia esperienza sia in termini di pratica clinica ed assistenza al malato sia in termini di produzione scientifica – afferma Emilio Bajetta (Istituto di Oncologia del Policlinico di Monza). Secondo l’oncologo, la complessità dei neuroendocrini, tra l’altro meno conosciuti perché “a bassa incidenza”, rende necessario un particolare grado di esperienza, a cominciare dalla corretta interpretazione dell’esame istologico: “Non basta farlo, bisogna saperlo leggere, perché condiziona pesantemente le varie scelte terapeutiche e il modo in cui vengono sequenziate”.
Spazio al confronto di realtà specializzate, dunque, e allo scambio di esperienze accomunate dallo studio di questa specialità.
Tra i tanti centri specializzati presenti con propri rappresentanti al convegno milanese, c’è l’Istituto Nazionale Tumori – IRCCS “Fondazione G.Pascale” di Napoli, con il quale i padroni di casa condividono una serie di progetti di ricerca per il miglioramento delle cure dei nostri pazienti.
“I nostri gruppi multidisciplinari riconosciuti a livello europeo hanno dimostrato di saper lavorare bene, al nord come al sud d’Italia, ma anche a livello di “rete” fra Centri, nel tentativo di determinare delle linee di standardizzazione per la gestione di una realtà estremamente eterogenea”, riprende Faggiano. Promuovendo il confronto, mettendo insieme le casistiche da cui trarre informazioni chiave per migliorare la conoscenza dei NETs, e “considerando di poter beneficiare di approcci terapeutici anche molto lievi, che possono fare a meno della chemioterapia, pur assicurando al paziente la maggior sopravvivenza possibile con la migliore qualità di vita possibile”.