
Sembra il titolo di un film trash ma è forse qualcosa di peggio. L’oncologo Siddhartha Mukherjee, autore del bestseller L’imperatore del male. Una biografia del cancro, è al centro di vibranti polemiche per un’intervista seguita all’uscita del suo libro più recente ma ciononostante non ha assunto un atteggiamento più prudente.
È di questi giorni un suo articolo sul New York Times. Il clinico della Columbia University continua a sostenere la necessità di affidarsi alla medicina di precisione che in pochi ambiti, come in quello oncologico, sembra riscuotere maggiori consensi. “Sono cresciuto in un’epoca in cui la medicina andava avanti a forza di protocolli standardizzati”, scrive Mukherjee in una pausa del suo avvincente racconto su una paziente affetta da una sindrome mielodisplastica. “In ospedale, i sistemi informatizzati monitoravano l’aderenza dei medici ai protocolli terapeutici. Se decidevi di discostarti da questi dovevi giustificarti con una scusa adeguata. Big Chemo was watching you”. Addirittura. Big Chemo.
L’epifania è avvenuta col cambio di millennio e la stella cometa è lo Human Genome Project. Mukherjee riconosce che le sperimentazioni controllate randomizzate su ampie popolazioni hanno portato benefici ai malati di cancro ma, nel complesso, si tratta di vantaggi modesti. La ragione è nell’evidenza che i risultati più notevoli nella terapia sono stati raggiunti quando un medicinale ha saputo colpire una determinata “vulnerabilità” nella malattia di un determinato individuo. Non esiste “il” cancro, ma una moltitudine di patologie diverse tra loro che, per ignoranza o per brevità, chiamiamo troppo spesso in un identico modo. E’ ormai un luogo comune, ma Siddhartha non teme di essere noioso nel ripeterlo: anzi, nel costruire su questa base una sorta di nuovo paradigma clinico che ha nell’intuizione e nella competenza del singolo specialista l’arma più efficace. Forse, la sola.
Nessun timore di discostarsi dai protocolli. Massimo coraggio nel sapersi muovere tra le linee(guida), quasi che l’oncologo di oggi debba trasformarsi in un estroso trequartista di una squadra di calcio capace di improvvisare la giocata giusta per ogni avversario si trovi di fronte. Le affermazioni di Mukherjee hanno già sollevato malumori e obiezioni da parte di colleghi non meno preparati: “Treating out of guidelines based on hunches is simply malpractice”, ha scritto Byshal Gyawali, oncologo che cura un blog da non perdere nella risorsa eCancer[1]. E Vinay Prasad, stimato oncologo della Health and Science University of Oregon, a proposito di un altro articolo uscito da poco sul New England Journal of Medicine[2] caratterizzato dallo stesso scetticismo nei confronti di un’assistenza sanitaria basata sulla ricerca clinica, ha puntualizzato nel suo blog[3]: “The solution to a bad RCT is a better RCT, not no RCT. But history will show that the RCT is the backbone of reliable evidence”.
Considerato l’impatto degli articoli scientifici sui media generalistici (soprattutto quelli di maggiore prestigio) ci vorrebbe una peer review anche per il New York Times?
Luca De Fiore
Fonti:
[1] Last month in oncology – May 2016. http://ecancer.org/news/9517-last-month-in-oncology-by-bishal-gyawali–may-2016.php
[2] Bothwell LE, et al. Assessing the gold standard: Lessons from the history of RCTs. N Engl J Med 2016;374:2175-81.
[3] http://www.vinayakkprasad.com/other-writing/