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Nuove terapie: come cambia l’approccio dell’oncologo alla cura?

By 24 Luglio 2017No Comments
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Stiamo vivendo un cambio di paradigma in Oncologia medica? Come impatta l’avvento delle nuove terapie, immunoncologiche e target, sull’approccio dell’oncologo alla cura delle neoplasie? Lo abbiamo chiesto a Maria Duro dell’Unità Operativa Semplice di Onco-Ematologia dell’Ospedale Valduce di Como.

“Sicuramente l’immunoncologia ha modificato parzialmente il nostro impatto. Occupandomi di gastroenterico sono un po’ meno coinvolta da questo punto di vista perché i farmaci immunologici attualmente in uso riguardano altre neoplasie. Però ha sicuramente cambiato l’approccio diagnostico alle malattie oncologiche e quindi direi che per noi è stato un impatto quasi devastante. Riguardo alle terapie a bersaglio molecolare, parliamo del fatto che prevedono una valutazione dell’immunoistochimica, della presenza o meno di ricettori specifici. Questo ha cambiato molto il nostro approccio perché se prima i trattamenti venivano fatti in modo standard e non ad personam, adesso con la tecnologia diagnostica riusciamo a fare trattamenti mirati alla persona e non solo alla patologia d’esordio. Tutte le terapie di tipo target hanno questa caratteristica. Anche se ci sono esempi in cui funziona ancora diversamente: penso a quanto accade nel colon dove, anche se abbiamo le target therapies, dagli ultimi protocolli e studi la differenziazione tra un trattamento più o meno aggressivo o più o meno target avviene per localizzazione del tumore (a destra o a sinistra). Le uniche vere target therapies che abbiamo, in questo distretto, sono cetuximab e panitumumab. Il resto sono chemioterapici più o meno combinati, con anche il bevacizumab, che però non è una target. Per cui il colon si comporta diversamente da tutte le altre malattie per le quali invece si sta facendo una terapia veramente personalizzata”.

Possiamo considerare, al di là degli aspetti esclusivamente clinici, un cambio nell’approccio al paziente di tipo culturale? I processi di decision making crescono di complessità all’aumentare dell’impatto di una malattia sulla qualità di vita di una persona: quali parametri di scelta considera, in quest’ottica, un approccio più umano alle cure?
“Secondo me, a prescindere dall’offerta farmacologica, ogni volta che ci troviamo di fronte un paziente dovremmo chiederci se la terapia che abbiamo scelto per lui è adatta alla qualità di vita o al suo sistema di vita. Non potrò mai dimenticare un paziente che faceva il barista. Si era categoricamente rifiutato di fare un anti-EGFR per il terrore che se l’avessero visto con un’eruzione cutanea non avrebbe più avuto nessun cliente. Quindi in questo caso la scelta terapeutica non l’ho compiuta solo in base alle sue caratteristiche, ma anche tenendo conto dei suoi desideri ed esigenze. La terapia va scelta di comune accordo. Il nostro dovere è dire quale sarebbe il trattamento migliore per la conduzione clinica generale del paziente, ma non possiamo non tenere conto delle sue esigenze. Un altro esempio: a me è capitato di avere un violinista che doveva affrontare una terapia con l’oxaliplatino, che è un farmaco neurotossico, e che dopo un paio di dosi si è reso conto che se avesse continuato con la terapia non avrebbe più potuto suonare il violino. Ecco, in casi come questo ne va quasi della sopravvivenza, per cui devono esserci scelte che vanno fatte a prescindere dai dettami delle nostre linee guida. Io penso che una linea guida anche se diagnostica o terapeutica debba essere applicata alla singola persona. Non possiamo sostituirci al cervello e alla sensibilità di un nostro paziente. Noi possiamo optare per la scelta corretta, poi davanti c’è sempre l’individuo, che ha il diritto di scegliere cosa fare e come farlo”.

La multidisciplinarietà gioca un ruolo fondamentale nel processo di umanizzazione delle cure: quali sono gli attori coinvolti?
“Posso parlare della mia esperienza. Nel nostro ospedale ci sono due tre gruppi di volontari a seconda della patologia e ciascuno di loro ha una competenza specifica. Noi forniamo ad esempio gratuitamente le parrucche a tutte le donne che perdono i capelli, abbiamo un gruppo di persone che a scopo volontario viene a truccare le donne in chemioterapia, ci sono le estetiste. C’è il servizio tisaneria, che ha lo scopo di depotenziare la tensione che le persone accumulano. E anche lo psiconcologo, che fa colloqui individuali o di gruppo monodiagnosi”.

Che tipo di supporto può fornire lo psicologo al percorso di cura e quali sinergie può stabilire con l’oncologo?

“Nei casi in cui ci si presenta con una condizione di fragilità emotiva lo psicologo ci può aiutare a sostenere la persona fragile. Ma a parte questo, secondo me, un ruolo che può essere molto importante sarebbe proprio di creare questi gruppi che discutono della stessa patologia, perché il paziente oncologico non è unico. Ci sono processi di accettazione della patologia che sono molto diversi, quindi penso sia molto utile formare tali gruppi di sostegno, in modo che i pazienti si aiutino anche a vicenda. Trovo i forum online estremamente freddi, sono solo parole, vedersi in faccia e compartecipare ad alcuni problemi a me sembra molto più utile. Questo in teoria o nella pratica di alcuni ospedali, ma io non so in Italia quante strutture abbiano uno psiconcologo assunto: in tutti i casi che conosco io gli psiconcologi sono pagati o sostenuti dalle associazioni. Tutti parlano di psicologia, ma poi di fatto se non avessimo le associazioni di volontari lo psiconcologo non lo avrebbe quasi nessuno”.

L’applicazione del modello biopsicosociale al rapporto medico-paziente, a cominciare dal processo di empowerment della persona malata, quale impatto può avere nella percezione di quest’ultima e sul suo percorso di cura? Potremmo dire che un approccio che tenga conto del processo di empowerment del paziente possa in qualche modo poi influire sull’outcome stesso della terapia?
“Sì. Recentemente mi è capitato un paziente al quale avrei voluto dare una terapia semplice, ma lui era impossibilitato, per una sua particolare malattia, a mandare giù pastiglie di qualunque tipo. Ovviamente ho dovuto modificare la terapia sulla base di questa caratteristica. Per me è stato un disastro organizzativo, un cambio completo del programma di cura. Ma abbiamo dovuto farlo per forza, perché la persona non era in grado di deglutire! Se avessimo insistito, lui poi probabilmente non avrebbe mai preso le pastiglie”.

Quindi una terapia considerata più efficace di un’altra sulla base di determinate condizioni teoriche, magari nella pratica finisce per essere meno efficace.
“Assolutamente, non possiamo mai prescindere da chi abbiamo di fronte. Anche se noi oncologi, comunque, un’idea di come debba essere fatta la terapia e di quale sarebbe il modo migliore dobbiamo averla. La terapia non può essere costruita solo di fronte al caso clinico, ma deve avere una linea guida dietro”.