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MA17R: ricercatori italiani mettono in discussione gli endpoint

By 22 Novembre 2016Novembre 24th, 20165 Comments
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Le possibili interpretazioni dei risultati di un trial clinico, specie per quanto riguarda l’efficacia di un farmaco, dipendono anche dalla scelta delle misure di endpoint utilizzate nello studio. È questo il punto di vista di Francesco Perrone dell’Istituto Nazionale per la Cura e lo Studio dei Tumori “Fondazione G. Pascale” di Napoli, Massimo Di Maio dell’AO Ordine Mauriziano Ospedale “Umberto I” di Torino e Lucia Del Mastro dell’IRCCS AOU San Martino – Istituto Nazionale per la Ricerca sul cancro (IST) di Genova, che su JAMA Oncology1 hanno commentato l’esito del trial clinico MA17R: uno studio che aveva l’obiettivo di indagare gli effetti della somministrazione per dieci anni di inibitori dell’aromatasi come trattamento adiuvante del carcinoma della mammella ormono-responsivo, i cui risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine (NEJM) e presentati al congresso 2016 dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO)2.

Secondo il team di ricercatori coordinato da Paul E. Goss della Harvard Medical School, direttore della Breast Cancer Research all’MGH Cancer Center del Massachusetts General Hospital, l’analisi dell’endpoint primario di MA17R dimostra che il prolungamento della terapia con letrozolo da cinque a dieci anni (ma fino anche a 15 anni per una discreta proporzione di pazienti nello studio) risulta efficace nel ridurre la probabilità di recidive della malattia in pazienti post-menopausali. Un effetto che, pur non determinando un effettivo aumento della sopravvivenza complessiva, è statisticamente significativo e non associato a una riduzione della qualità della vita.

Tuttavia, suggeriscono Perrone e colleghi, i risultati della ricerca possono essere interpretati diversamente a seconda della definizione di endpoint utilizzata. Infatti, l’endpoint primario dello studio MA17R ‒ la disease free-survival (DFS) – è stato definito non considerando come evento l’eventuale decesso della paziente in assenza di recidiva. Una mancanza rilevante in quanto, come dimostrato da un’analisi post-hoc contenuta nell’articolo pubblicato su NEJM, se la morte delle pazienti viene invece presa in considerazione assieme agli altri dati l’analisi di efficacia del farmaco produce un risultato di dimensioni molto più contenute e non più statisticamente significativo.

Come fanno notare gli autori dell’articolo di JAMA Oncology, esistono delle misure di esito standardizzate e condivise dalla comunità scientifica per la valutazione dei trattamenti adiuvanti per il carcinoma della mammella, definite dal cosiddetto sistema STEEP3. Tra queste, nessuna esclude la morte dall’elenco dei fattori che devono essere presi in considerazione nella valutazione dell’efficacia di un farmaco oncologico. Se ne può dedurre, quindi, che secondo i criteri STEEP la misura di esito utilizzata nello studio MA17R non è idonea a a determinare gli effetti della somministrazione prolungata di inibitori dell’aromatasi sulla incidenza di carcinoma della mammella ormono-responsivo. Particolarmente rilevante risulta essere l’esclusione dall’analisi di tutte le morti non associate alla patologia neoplastica oggetto di studio, per il fatto che tale evento è tutt’altro che raro per la classe di pazienti a cui il farmaco è destinato, nella maggior parte donne anziane.

In linea di principio, i risultati di un trial clinico andrebbero sempre interpretati sulla base dell’endpoint primario e reinterpretarli alla luce di un endpoint alternativo è, sottolineano Perrone e colleghi, metodologicamente e concettualmente sbagliato. Proprio per questo motivo in Inghilterra è nato il gruppo COMPare, costituito da accademici e studenti del Centre for Evidence-Based Medicine (CEBM) della Oxford University impegnati a individuare, tra gli studi pubblicati, quelli in cui la scelta dell’endpoint finale è diversa da quella indicata nei protocolli originali. Da una loro indagine, ad esempio, è emerso che dei 67 studi presi in analisi solo 9 potevano essere considerati perfetti, mentre i restanti erano caratterizzati da più di 700 modifiche, tra misure di outcome omesse e nuovi parametri aggiunti in corso d’opera. Appare quindi probabile che lo switching o l’aggiunta di endpoint durante le fasi di sperimentazione di un farmaco oncologico siano strategie utilizzate di frequente dai ricercatori per favorire un’interpretazione positiva dei risultati. Pur tuttavia, MA17R rappresenta una eccezione in cui una definizione criticabile dell’endpoint primario lo rende nei fatti causa di una interpretazione sbagliata e in cui è necessario, con buon senso, guardare al risultato di una analisi secondaria dello studio. Un fenomeno questo che deve essere considerato da clinici e policy-maker nel momento in cui vengono prese decisioni che coinvolgono l’utilizzo di questi farmaci.

Fabio Ambrosino

▼1. Perrone F, Di Maio M, Del Mastro L. A Case Where Switching the End Points for Clinical Trial Interpretation Might Be the Right Choice. JAMA Oncology 2016.
▼2. Goss PE, et al. Extending aromatase-inhibitor Adjuvant Therapy to 10 Years. New England Journal of Medicine 2016; 375: 209 – 2019.
▼3. Hudis CA, et al. Proposal for Standardized Definitions for Efficacy End Points in Adjuvant Breast Cancer Trials: The STEEP System. Journal of Clinical Oncology 2007; 25: 2127 – 2132.

5 Comments

  • Dario Gavetti ha detto:

    Sarebb curioso sapere cosa controbttono gli autori dello studio alla critica mossa

  • Andrea de Matteis ha detto:

    Nel 2009, Seruga e Tannock su JCO del 20 Febbraio di quell’anno rilevavano che le morti in assenza di ripresa tumorale erano di gran lunga superiori nelle pazienti sotto I.A. rispetto a quelle che assumevano Tamoxifene : 279 contro 242 decessi osservati nel gruppo TAM.
    Il problema non è di piccolo conto. Suggestivo il titolo del commento. “IL RE E’ NUDO”

    Andrea de Matteis

  • Concordo con l’acuta analisi fatta dai colleghi a proposito dello studio MA17R circa l’endpoint.
    Non si può non tenere conto dei decessi intervenuti in assenza di cancro sotto terapia con Inibitori delle aromatasi e non inserirli nell’analisi finale.
    A tal proposito ricordo un interessante editoriale pubblicato da Seruga e Tannock su JCO del 20 Febbraio 2009, in cui osservavano, a proposito dello studio ATAC che nel braccio Anastrozolo si erano osservati 279 decessi in assenza di malattia tumorale contro i 242 osservati nel braccio >TAM, vale a dire 37 decessi in più osservati nelle donne cha assumevano Anastrozolo. E’ veramente poco edificante leggere dei risultati non puliti.

    Andrea de Matteis