
“L’imperatore del male”. Dal titolo, lo spettatore medio americano che il 30 ed il 31 marzo e il 1 aprile si sintonizzasse sulla miniserie televisiva in tre puntate della PBS penserebbe ad una serie simile a “True detective” o ad “Empire”. E invece “The Emperor of All Maladies”, come suona il titolo in originale, riprende il best seller di Siddhartha Mukherjee, vincitore del Pulitzer 2011 (traduzione italiana, Neri Pozza 2011). Un film-documentario sul cancro di sei ore, del quale hanno discusso di recente su Medscape lo stesso Mukherjee (oncologo medico e ricercatore, professore alla Columbia University) e Clifford A. Hudis, responsabile del Breast Cancer Medicine Service del Memorial Sloan Kettering Cancer, già presidente ASCO.
Le storie dei pazienti e la medicina narrativa
Mukherjee iniziò a lavorare al libro nel 2004, da assistente ospedaliero, quando era impegnato ventre a terra da quel che di solito si fa in un reparto: riempire i moduli per la richiesta delle chemio, mentre ci si fa in quattro per cercare di capire come essere di aiuto al meglio ai pazienti. Di colpo, fu colpito da un commento, uno dei tanti, di una paziente. Una donna che stava per affrontare un terzo ciclo con un inibitore della chinasi per un sarcoma addominale: «Posso anche farcela ad andare avanti, ma prima devo sapere cosa sto combattendo». In quel momento Sid capì che la donna avrebbe voluto sapere come era arrivata fin lì. E che cosa sarebbe accaduto dopo, quale domani le si sarebbe prospettato. Ecco come nacque il libro. Il problema è che troppo spesso l’oncologo non racconta le proprie storie in modo chiaro ed esaustivo. Sia il documentario che il libro sono invece davvero dei formidabili esempi di narrazione. D’altra parte, né il libro né il docufilm avrebbero potuto esistere senza le storie personali che vi si intrecciano: «L’anima del documentario e del libro – sostiene Mukherjee – è che tutto deve e può essere espresso in termini narrativi. Mi azzarderei a sostenere che non c’è scienza al di fuori della narrazione, e che sono fondamentalmente collegate. Se chiedete ai più grandi medici, ai più grandi scienziati, del loro lavoro più innovativo, lo descriveranno non certo ricorrendo ad una sorta di equazione astratta, ma in termini di narrazione. Ti diranno esattamente il fatto che li ha indotti a pensare a qualcosa, come sono arrivati ad una certa idea e come poi l’hanno fatta vivere nelle loro storie. Non è possibile immaginare la medicina fuori dalla narrazione, almeno io non riesco a immaginarlo, ed è così che ho strutturato il libro. E il documentario è fatto di storie su storie. Tutto nasce da lì».
L’oncologia oggi: tanti progressi, ma restano le ombre
Da allora, i progressi nelle terapie e nella diagnosi dei tumori sono stati sorprendenti. Come nota Hudis, interi ambiti del lavoro scientifico, come la scienza traslazionale, e gli stessi risultati clinici di oggi, 10 anni fa avremmo potuto soltanto sognarli. Naturalmente, nell’adattamento del libro se n’è tenuto conto, eccome: «In realtà abbiamo dovuto cambiare a fondo la sceneggiatura – nota Mukherjee. – Quando l’abbiamo scritta, l’immunoterapia esisteva, ma chiudeva soltanto lo script, come una sorta di auspicio: che bello sarebbe se si potesse allenare il sistema immunitario a riconoscere e ad uccidere le cellule tumorali. Mentre abbiamo girato il film, la fantasia ha cominciato a diventare realtà, non in tutti i casi (ci sono ancora alcuni se e alcuni ma riguardo a questo tipo di terapia), ma abbiamo assistito al suo sbocciare. Così la sceneggiatura è cambiata, e un segmento previsto di 4 minuti di girato è cresciuto fino a 20 minuti». I pazienti hanno dato il consenso per esser filmati a partire dal giorno 0 della loro diagnosi e per esser seguiti longitudinalmente di lì in avanti. Sono stati seguiti così come le loro storie si sono dispiegate, il che ha reso la narrazione incredibilmente potente, lasciando emergere l’urgenza inglobata nella profondità dei vissuti. Hudis nota però che, per quanti progressi si stiano registrando, alcune forme tumorali mantengono ancora la loro aggressività, cosicché non tutte le storie hanno un lieto fine. Mukherjee ne conviene, naturalmente, pur facendo presente che «lo spirito del documentario era mantenersi fedeli a ciò che sta accadendo in medicina. Con sobrietà. L’ottimismo doveva quindi essere equilibrato da quel che resta deludente. Non che si trattasse di tirarsi indietro davanti a ciò che è davvero duro e indigesto. Anzi, il film testimonia anche la morte, anche se non la mostra, per quanto si capisce benissimo nel film quando i pazienti muoiono. Non volevamo invadere la privacy, e d’altra parte non desideravano certo addolcire una storia che resta molto, molto complicata, con enormi progressi per alcuni pazienti, con terapie mediche in continua trasformazione per alcuni, ma che ancora marca insuccessi per altri. Nel film si assiste a momenti veramente difficili, come quando i pazienti devono prepararsi ad affrontare la morte, quelli in cui la medicina guarda in faccia i propri fallimenti».
L’arte della medicina
In fondo, sostiene Mukherjee, la cosa più importante resta dire la verità. Se la medicina entra in contraddizione con le proprie conclusioni, se si cerca di nascondere ciò che è noto e ciò che invece non lo è ancora, ci si mette nei guai. La cosa migliore consiste nel dire alla gente quali progressi sono stati fatti, ma anche che c’è ancora molto da fare. Secondo Hudis, tuttavia, è difficile mantenersi in equilibrio su questo sottile confine tra la speranza onesta ed il dire la verità in modo però che non distrugga la speranza. Anche perché varia per ogni paziente e per ogni famiglia. Per questo, Mukherjee è ricorso ad alcuni esempi che dimostrano davvero l’arte della medicina. Quella propria di grandi medici, come ad esempio Tom Lynch [oncologo toracico, direttore del Yale Cancer Center], capaci di mantenere quell’equilibrio: mai distruggere o asfissiare la speranza, senza creare però false aspettative su quel che è disponibile e che può accadere. Questa, e non altro, è l’arte della medicina. Per cui, il docufilm si occupa anche di un aspetto controverso e problematico, in particolare negli Stati Uniti, quale l’accesso alle terapie, al quale dedica un’intera sezione., specie le immunoterapie e le nuove terapie targeted. Senza dimenticare però che accesso non è solo una questione di denaro; accesso vuol dire dare la medicina giusta alla persona giusta al momento giusto e per la giusta malattia. Una medicina di precisione. Se non possiamo risolvere il problema del giusto prezzo, possiamo invece contribuire a fornire il giusto farmaco alla persona giusta: «Inventarsi un altro farmaco inefficace che aumenta la durata della vita di 2 settimane e mezza ad un prezzo esorbitante non risolve alcun problema. Invece, se si targetizza il paziente giusto con la medicina giusta si può aumentare la sua vita significativamente, poniamo di 5 anni, e l’intera discussione sull’accesso alle cure allora cambia radicalmente», nota Mukherjee. Se è vero che negli ultimi dieci anni negli Stati Uniti il potere di spesa per i NIH e per il NCI si è ridotto del 25%, è anche vero che il Presidente Obama ha stanziato in gennaio 215 milioni di dollari proprio per la medicina di precisione, anche se non certo tutti andranno all’oncologia. Iniziativa lodevole, pur ricordando – con Mukherjee – che 215 milioni di dollari restano una somma sì importante, ma piccola, se si pensa che il budget federale del NCI e degli NIH ammonta rispettivamente a 5 e a 10 miliardi di dollari l’anno. Cioè, nota Hudis, stiamo parlando in prima approssimazione dello 0,1% della spesa federale per un problema come il cancro che colpisce tra un terzo e la metà di tutti gli americani.
Su Clifford Hudis vedi anche l’intervista da ASCO 2014: Sfide e opportunità
Luciano De Fiore