
Le domande sono le solite. Il processo registrativo europeo impone dei vincoli ai singoli Paesi: ci stanno bene gli attuali? Avremo mai in Italia un governo in grado di garantire insieme equilibrio economico ed accesso all’innovazione? Possiamo sperare in correttivi al sistema attuale, di modo da ottenere un processo di valutazione ed un rapido accesso ai farmaci innovativi? E soprattutto, in prospettiva, avremo le risorse economiche per garantire la rimborsabilità dell’innovazione?
Com’è ovvio, sono domande che pesano particolarmente in ambito oncologico. Nel quale la disponibilità di nuovi farmaci, e addirittura di “nuove” strategie terapeutiche (vedi l’immunologia) apre scenari confortanti e insieme preoccupanti. Da tempo gli organismi deputati (come l’AIOM e il CIPOMO, da noi) seguono con attenzione e condizionano per quanto nelle loro possibilità l’evolversi delle proposte. Ma anche all’estero la situazione è analoga, come dimostrano i contributi più recenti pubblicati anche su testate prestigiose. Come il Journal of the Royal Society of Medicine, che ha ospitato di recente un contributo anche italiano (grazie a ricercatori dell’Istituto Mario Negri)[1] sugli accordi stipulati tra i sistemi sanitari e le aziende farmaceutiche, volti a garantire appunto l’accesso ai farmaci più innovativi e costosi nel più breve arco di tempo al maggior numero possibile di pazienti. Se ne ha conferma che tali intese non sono tutte eguali, quanto a risultati. Inoltre, ad un’analisi più avvertita è possibile leggervi in tralice strategie aziendali che tendono a mantenere in ogni caso prezzi alti. Purtroppo, il caso degli antitumorali è paradigmatico.
Tuttavia, le conclusioni cui pervengono i ricercatori britannici ed i loro colleghi italiani sono per certi versi confortanti. Infatti, il sistema britannico è basato su calcoli quasi esclusivamente finanziari, nei quali l’obiettivo è la riduzione di prezzo sulla base del numero di dosi acquistate. Il sistema italiano, invece, è incentrato sull’efficacia dei farmaci, cioè sul bilancio – a fronte di costi anche considerevoli – tra spese e benefici ottenuti. Secondo gli autori, in base ai calcoli ufficiali, il nostro sistema è migliore, anche se impopolare, dal momento che funge da freno all’approvazione rapida di farmaci a volte sicuramente efficaci (come l’ipilimumab nel melanoma avanzato, per fare un caso di scuola), ma il più delle volte molto costosi e non in grado di assicurare vantaggi significativi rispetto allo standard esistente, specie se OS e PFS restano l’end point primario. Le curve di sopravvivenza che confrontano diverse terapie antitumorali sono spesso scoraggianti: poche settimane, nei migliori dei casi, giustificano costi e effetti indesiderati? Oltretutto, l’industria si accontenta spesso di dimostrare che un nuovo prodotto non fa male e non è inferiore a ciò di cui già si dispone, mentre il servizio sanitario domanda cure migliori di quelle che oggi si usano. Gli autori sollevano un’ulteriore questione: nel caso gli accordi commerciali tra stati e aziende non siano del tutto trasparenti, c’è il rischio che le aziende farmaceutiche se ne servano per mantenere i prezzi artificiosamente alti, a scapito soprattutto dei Paesi più piccoli, con scarso potere contrattuale (anche perché hanno pochi malati). Un ulteriore motivo di preoccupazione per il bene pubblico.
[1] Garattini L, van de Vooren K et al., Market-access agreements for anti-cancer drugs, J R Soc Med, December 8, 2014, doi: 10.1177/0141076814559626.