Il BMJ è una rivista per medici, lo sa chiunque. Ce lo ricorda il Direttore, Fiona Godlee, in un interessante editoriale che pone però una questione ormai ineludibile: cresce il desiderio dei pazienti di essere coinvolti nel processo terapeutico, anche perché, di fatto, accedono via Internet sempre più spesso ad informazioni in teoria destinate ai soli curanti.
Godlee fa il caso di un malato oncologico, Dave deBronkart (noto anche come l’e-paziente Dave), un paziente sopravvissuto ad un carcinoma renale al IV stadio, di grado 4. Dave ha rivolto un appello, dalle colonne dello stesso BMJ (BMJ 2013;346:f1990), affinché la comunità terapeutica “si lasci aiutare dai pazienti”. “Per cortesia”, ha scritto, “lasciate che i pazienti contribuiscano a migliorare l’assistenza. Fate in modo che i pazienti collaborino al momento di assumere le decisioni, pratiche e strategiche”.
La rivista si occupa da tempo del problema. Già dieci anni fa pubblicò sul tema. Oggi la situazione ha compiuto ulteriori progressi. L’editoriale attuale ricorda l’esistenza di blog tenuti da pazienti la cui autorevolezza è ormai notevolissima e riconosciuta, al punto da influenzare l’approccio stesso alle malattie sia dei pazienti, sia dei medici curanti. La Direttrice ricorda che il BMJ ha resistito per anni alla tentazione di aprire le proprie pagine al pubblico laico ed ai pazienti, pur sapendo che molti di questi già leggono la rivista nell’edizione online. Ma pazienti come deBronckart non vogliono soltanto avere a che fare con medici più empatici e vicini alle loro storie. Desiderano piuttosto essere considerati allo stesso livello dei terapeuti. Ed il BMJ sembra voler raccogliere questo invito, lavorando con colleghi di ospedali come la Mayo Clinic ed altre istituzioni. D’altra parte, come si potrebbe migliorare l’assistenza se non coinvolgendo coloro che il sistema è destinato a servire?