Anche quest’anno il meeting di Chicago si annuncia come il maggiore e più importante dell’anno per chiunque si occupi di oncologia, dal punto di vista clinico innanzitutto, e poi scientifico, industriale e di marketing. Più di trentamila oncologi di tutto il mondo hanno raggiunto la bella capitale dell’Illinois per aggiornarsi sulle novità terapeutiche, ma ancor più per confrontarsi sulle problematiche attuali ed emergenti dell’oncologia.
Una delle maggiori è certamente l’impatto delle lungosopravvivenze al tumore sul mondo sanitario e più in generale sulla convivenza civile dei Paesi sviluppati, da quando il cancro sta divenendo una malattia cronica, o meglio cronicizzabile. Infatti, una delle sessioni del convegno – Optimizing Efficient and Effective Care of Cancer Survivors – sarà interamente dedicata alla questione.
Un fascicolo di The Lancet (doi:10.1016/S0140-6736(12)60794-6) aveva riacceso di recente i riflettori sul problema, notando che ormai diversi studi hanno dimostrato che le cure a lungo termine ricevute dai sopravvissuti al cancro non sono standardizzate e che raramente si bada allo screening per la diagnosi precoce di effetti tardivi.
Lo studio di Oeffinger ha dimostrato che, nel complesso, per i sopravvissuti al tumore 30 anni dopo la diagnosi di cancro l’incidenza complessiva di una patologia cronica raggiunge il 73,4%, con un’incidenza del 42,4% per gravi condizioni di disabilità, pericolo di vita o morte a causa di una malattia cronica. E nel 2008 il lavoro di Nathan ha reso noto che solo il 40,8% delle 414 donne sopravvissute considerate nello studio ed esposte ad un potenziale aumento del rischio di carcinoma alla mammella era stato sottoposto a mammografia.
Molti sopravviventi tornano a farsi curare dai propri medici di medicina generale: diviene quindi fondamentale per questi ultimi capire quali comorbilità possono interagire con precedenti trattamenti terapeutici antitumorali, aumentando sostanzialmente il rischio di complicanze a lungo termine. Per esempio, è noto grazie al recente studio (pubblicato su Blood) di Saro Armenian che la presenza di ipertensione in un paziente che ha ricevuto 250 mg/m2 di antraciclina lo espone ad un rischio 35 volte maggiore di insufficienza cardiaca. Eppure, nonostante questi rischi, permangono lacune cruciali nel follow-up di questi lungo sopravviventi, sempre più numerosi.