Skip to main content

Le competenze di un oncologo

Intervista a Raffaele Giusti By 7 Settembre 2022No Comments
Congressi

Quali competenze un giovane oncologo sente solitamente di dover acquisire al termine del proprio percorso formativo?
La domanda è molto ben formulata. Un giovane oncologo “sente” di dover acquisire delle competenze che spesso possono essere divergenti da quello che un giovane oncologo “deve” o quantomeno dovrebbe. La domanda allora potrebbe essere: quali sono le competenze che caratterizzano la formazione di un giovane oncologo? La risposta può essere molto semplice, anzi tanto semplice cha basta far riferimento al documento congiunto del gruppo di lavoro AIOM COMU CIPOMO del 2020 che riporto: “Al termine di un corso di Oncologia medica, lo studente deve aver acquisito le conoscenze essenziali per un’adeguata gestione clinica del paziente con cancro. In particolare, dovrebbe aver chiari tre aspetti fondamentali: il percorso diagnostico (inclusa la stadiazione) e terapeutico, la comunicazione (con gli aspetti psicologici correlati) e l’importanza delle terapie di supporto (sia come “simultaneous care” per i pazienti in trattamento attivo, sia come cure palliative per i pazienti non più candidati a trattamento antitumorale attivo)”. Questo è quanto chiediamo. Spesso però mi domando, lavorando quotidianamente insieme a giovani colleghi, se è veramente questo quello a cui ambiscono i giovani oncologi, inebriati dalla scia di talenti memorabili accolti nei congressi come star internazionali e celebrati nei social media. Siamo una generazione medica cresciuta sull’onda del publish or perish, sotto la costante pressione accademica che vuole in maniera sciagurata che un medico in formazione specialistica già dal primo anno di scuola sia autore di un numero indefinito di pubblicazioni e abbia un know-how specialistico di una determinata patologia inteso come sub-specializzazione o addirittura iper-specializzazione. Siamo la stessa generazione che oggi si affaccia all’impact or perish, spesso determinando condotte malate. Non impariamo più a saper scrivere un articolo scientifico che sia degno di questo nome, piuttosto a fare sì che il lavoro pubblicato sia collocato in uno scaffale editoriale che gli conferisca prestigio e influenza collocandolo al centro di una rete di metriche che guardano tipicamente a dove si pubblica e a quante volte il lavoro viene citato. Siamo quella generazione che non punta alla formazione di base, ma all’essere un Key Opinion Leader. Puntare in alto sempre, ma siamo sicuri che sia questa la giusta direzione? Siamo sicuri che la valutazione del merito, oggi come oggi, si basi realmente sui tre aspetti fondamentali che abbiamo menzionato poco sopra? Ma allora quale è la prima competenza che sento da giovane oncologo di dover acquisire? L’onesta intellettuale. La seconda? Il rispetto del paziente. La terza? Il valore della vita. Troppo scontato? No, troppo difficile.

Quale contributo dà una società scientifica alla soddisfazione di questo bisogno?
Le società scientifiche giocano un ruolo importante, essendo attive nell’aggiornamento dei propri iscritti (pensiamo per esempio ai congressi organizzati o patrocinati o ai corsi di formazione residenziali e a distanza) e nell’orientare l’assistenza sanitaria con la produzione di linee guida di pratica clinica. Aggiornamento spesso significa anche confrontarsi con altre realtà più o meno virtuose volte a creare interesse nel saper crescere ed eventualmente instaurare delle importanti collaborazioni. È in quest’ottica che una società scientifica può soddisfare un fabbisogno formativo, ovvero quello di saper offrire i mezzi e i canali volti a perseguire un determinato obiettivo di accrescimento culturale e sociale al singolo membro nell’ottica di un processo di growing together – dove l’accento cade su “together”.

L’indirizzo in tema di deontologia, bioetica, vita professionale è prerogativa degli Ordini dei Medici: in quale misura ritieni che questo compito sia effettivamente assolto?
Voglio rispondere a questa domanda immaginando e semplificando il concetto di etica medica come un insieme di regole di condotta (etica) per gli operatori sanitari a beneficio dei loro pazienti che devono essere considerate mandatorie nella formazione di un giovane oncologo. Il rapporto medico/paziente è la pietra angolare della pratica medica e dell’etica medica, facilita la trasmissione di conoscenze e cure scientifiche, la proporzionalità di cura, il non accanimento, il rispetto della vita, il rispetto del fine vita e il valore della morte. Infatti, una buona informazione e comunicazione tra medico e paziente, un prerequisito per il suo consenso per qualsiasi medico, è un obbligo etico, legale e disciplinare. Come medico oncologo che segue da vicino i pazienti dalle fasi iniziali di trattamento fino alla fine del proprio percorso, sia di cura che spesso di vita, provo di frequente molto rammarico nel constatare con quanta approssimazione o esasperata ideologizzazione si comunichi una progressione di malattia, una prognosi o, sempre più raramente, si parli di fine vita e delle scelte che comporta ciascuna situazione, predicando “certezze” che agli occhi della persona possono rappresentare il vuoto, la disperazione, la perdita di una persona amata. Al di là delle linee guida, dei trattamenti innovativi, delle chance terapeutiche che un giovane oncologo deve apprendere, esiste una certezza che chi come me si occupa di fine vita sperimenta ogni giorno: quella di agire, in alcuni casi, dove non esistono certezze, dove nulla è o bianco o nero, dove tutto dipende dalla nostra volontà e da quella del paziente e dove bisogna imparare a lavorare e “governare l’incertezza” e saperla comunicare alla persona malata. Esistono competenze di insegnamento e competenze di apprendimento. Alcune le troviamo nei testi scientifici, molte altre le troviamo nella vita quotidiana. Quanto questo compito è effettivamente assolto? Preferisco non rispondere.

L’intensa collaborazione delle società scientifiche con imprese private farmaceutiche e di dispositivi medici è un’opportunità da valorizzare o potrebbe essere un limite alla loro indipendenza?
Per rispondere, non posso non citarti in un interessante articolo pubblicato su Recenti Progressi in Medicina nel marzo 2019 dove viene chiaramente riportato come le persone che lavorano nella ricerca o nell’assistenza sanitaria si trovano a operare in contesti sempre più complessi e ricchi di relazioni tra soggetti portatori di interessi diversificati. Occorre dunque essere consapevoli che ci si trova a prendere decisioni riguardanti il malato o – aggiungo io – stilare delle linee guida in condizioni caratterizzate sempre più frequentemente da conflitto di interessi, ovvero correndo un maggior rischio di essere influenzati da fattori che non coincidono con l’interesse primario dei pazienti o dei cittadini. La condizione di “rischio” deve rappresentare un tema centrale nella formazione del medico che non viene educato e formato su questa problematica, soprattutto perché spesso la stessa formazione è condizionata dagli investimenti dell’industria nella sponsorizzazione di eventi accreditati dai programmi di educazione continua che rappresentano uno dei momenti formativi importanti nel percorso di accrescimento culturale del singolo. Opportunità da valorizzare? Sicuramente sì. Può essere un limite all’indipendenza? Potrebbe, quindi non sottovalutare il problema è il primo, fondamentale passo da fare. Esserne consapevoli è il secondo, essenziale.

In ultimo, vorrei chiederti di concedermi una considerazione personale…
In molti documenti di società scientifiche viene espresso in maniera chiara e definita cosa un giovane oncologo deve sapere, oppure, volendo utilizzare dei toni più eleganti, cosa non può mancare in un ottimo core curriculum di un giovane oncologo. Quello che mi sfugge è quali siano i criteri e le misure di controllo per garantire dei “buoni maestri”. Mi spiego. Se il valore di una scuola lo misuriamo con il fattore di impatto dei docenti afferenti potrei trovarmi in linea con quanto ho esposto indicando che un elevato impact factor non necessariamente garantisce una buona formazione tecnica, teorica, morale e culturale del giovane oncologo. Ma allora come può un giovane oncologo saper individuare dei buoni maestri? Risposta semplice: umiltà, lavoro ed esperienza diretta sul campo perché spesso proprio sul campo si incontrano i migliori maestri e, soprattutto, sguardo fisso in avanti per non perdere mai di vista l’orizzonte dei propri sogni.