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Verso un’oncologia “sostenibile”?

By 10 Aprile 2012Novembre 27th, 2013No Comments
A colloquio con...

Angelo Palozzo, Direttore Farmacia Istituto Oncologico Veneto di Padova, intervista Salvatore Palazzo, Direttore UO Oncologia Ospedale di Cosenza autore di Per un’oncologia sostenibile. Intervista pubblicata su Bollettino SIFO, numero 4, 2011.I professionisti sanitari devono lavorare in collaborazione per garantire al paziente la migliore delle cure possibili senza sottrarre inutili risorse alla società. Nel contesto italiano, quali sono i livelli di collaborazione che gli oncologi devono cercare con i farmacisti?


Per oncologia sostenibile
Uno dei temi emergenti in Oncologia Clinica – correlato alla ventata di sano ottimismo che deriva dai miglioramenti apportati, in diversi tipi di tumori, dai nuovi farmaci antitumorali dal costo elevato – è quello della valutazione globale delle terapie farmacologiche innovative in campo oncologico e, in particolare, del loro profilo clinico, economico ed etico, per conciliare da un lato la garanzia di un equo e uniforme accesso dei pazienti a tali cure e, dall’altro, la necessità di allocare le risorse secondo criteri di appropriatezza, magari prevedendo forme di corresponsabilità con il paziente e i suoi familiari, e tenendo sempre conto del problema della sostenibilità economica e della compatibilità etica di scelte evidence-based, anche in riferimento a pazienti portatori di altre malattie.

Al fine di mediare un tale mix di esigenze clinico-manageriali, è imprescindibile, nel moderno setting sanitario sempre più orientato a un lavoro di team, che ad attrezzarsi a trovare soluzioni tecniche nuove rispetto al passato non sia solo l’oncologo medico. Anzi, egli non va lasciato più solo nelle sue decisioni, come vorrebbe una certa politica del fissare un tetto di spesa e basta, ma devono concorrere invece in maniera virtuosa anche farmacisti e infermieri oncologi e gli stessi pazienti, che spesso sono le prime vittime, abbacinate da miracolose scoperte di certa stampa. È per questo che un maggior impegno condiviso nella ricerca di prescrizioni – derivanti da una analisi non acritica dei lavori scientifici, da una maggiore comune attenzione all’impiego di linee-guida, da una costante aderenza ai protocolli stabiliti in équipe – potrà condurre a individuare soluzioni diagnostico-terapeutiche, basate non su principi riduzionisti ma di complessità, evitando trattamenti a oltranza, dannosi e costosi, e permettendo quella lotta agli sprechi capace di ottenere ampi margini di risparmio. Occorre pertanto iniziare ad aggiungere, nei percorsi di accreditamento all’eccellenza della propria struttura avviati in Italia, quella certificazione etica che impone adeguata formazione degli Operatori oncologi e un’oculata educazione dei consumatori finali delle attività sanitarie, cioè i pazienti e i loro familiari.

A quale livello (aziendale, provinciale, regionale) è utile centralizzare le preparazioni antiblastiche, mantenendo efficienza, sicurezza per il paziente e il personale, e un basso impatto ambientale?

Credo che l’istituzione di un’Unità dei Farmaci Antitumorali (UFA) provinciale, cui demandare lo stoccaggio, la preparazione e lo smaltimento dei rifiuti speciali relativi a tutte le preparazioni dei chemioterapici – relativi ai Centri Oncologici che per ragioni orografiche e logistiche possono rappresentare un’Area Vasta –, sia auspicabile per almeno due ordini di ragioni:

1. contenere la spesa sanitaria relativa al trattamento dei pazienti oncologici, legata all’entrata nell’impiego clinico dei nuovi farmaci antitumorali, specie i cosiddetti “biologici”,

2. assicurare uno standard di safety elevato e uniforme per tutto il personale direttamente coinvolto alla manipolazione dei farmaci citotossici.

Ovviamente, in questo caso è indispensabile anche l’attivazione di un sistema di tracking, collegato a un software in centrale operativa, che costantemente localizzi e monitorizzi il percorso dei prodotti farmaceutici adeguatamente confezionati.

Quali sono gli indicatori di esito dei trattamenti che hanno un reale valore in oncologia?

Un aspetto su cui ritengo di dover richiamare l’attenzione degli oncologi, e non solo medici, è quello relativo agli endpoint negli studi sui nuovi farmaci, per i quali penso sia il caso di ritornare a endpoint principali in cui considerare parametri rilevanti sotto il profilo clinico, come la sopravvivenza globale e/o la qualità di vita, e assegnare invece agli endpoint surrogati (per esempio, sopravvivenza libera da progressione) un ruolo assolutamente secondario. Sicuramente questa proposta rischia, a tutt’oggi, di sembrare patetica. Ma sicuramente la forte spinta che l’amministrazione Obama sta dando alla comparative effectiveness obbligherà a rivedere queste posizioni che la comunità scientifica internazionale ha assunto da pochissimi anni.

Si rende urgente, quindi, la valutazione della reale portata innovativa del nuovo farmaco da parte del team oncologico e ciò indipendentemente dal fatto che il farmaco abbia già conseguito la registrazione da parte dell’ente regolatore.

E ancora, è indispensabile un maggior impegno di condivisione tra i vari stakeholder professionali:

  • nella ricerca di prescrizioni, derivanti da un’analisi non acritica dei lavori scientifici,
  • nell’implementazione nella pratica clinica solo dopo la pubblicazione di almeno uno studio su un’importante rivista peer reviewed (mentre oggi si assiste alla prescrizione di farmaci dopo la presentazione dei risultati in forma di abstract a un convegno),
  • in una maggiore comune attenzione all’impiego di linee-guida; in una costante aderenza ai protocolli stabiliti in équipe.

Tutto questo mira alla realizzazione di soluzioni diagnostico-terapeutiche, basate non più su obsoleti principi riduzionistici, ma su quelli moderni della teoria della complessità, evitando comportamenti oltranzisti o nichilisti, dannosi e costosi, e garantendo quella lotta agli sprechi capace di ottenere ampi margini di risparmio. Soluzioni di cura, quindi, in cui i diversi saperi, tecnico – sia clinico sia economico – ed etico-deontologico, nel rispetto dei diversi approcci metodologici, non si limitino a giustapporsi, ma sappiano interagire e integrarsi verso una decisione comune.

In molti pazienti affetti da tumori in stadio avanzato/metastatico la guarigione non è un obiettivo della terapia e spesso i trattamenti non modificano (o molto poco) le mediane di sopravvivenza. Quale intervento è socialmente accettabile per questi pazienti, tenuto conto che i costi delle terapie saranno sempre più elevati?

In ogni scelta che effettuiamo nel nostro reparto di oncologia si cela una specie di “fustella” del prezzo aggiuntivo, che contiene i costi non solo economici, ma anche di tossicità clinica sui pazienti e di impatto sull’ambiente; e che, pagata dal nostro ospedale, dal sistema sanitario, dal Paese, dal nostro pianeta, spesso ricade anche sulla nostra stessa salute. Ma se non siamo ben attrezzati a leggere questo “conto”, diventa impossibile prendere consapevolezza del “ciclo di vita” delle scelte cliniche, e finiamo per non accorgerci di quanto abbiamo potuto provocare con le nostre decisioni.

Non può bastare quindi all’oncologo (medico, infermiere, farmacista) acquisire semplici informazioni, per es., sulle indicazioni in-label di un farmaco innovativo, per diventarne consapevoli decisori d’uso in un mercato sostenibile per l’intera comunità oncologica, ma occorre un radicale cambiamento cognitivo, che, come ci permette “di reagire a una vernice al piombo con la stessa istintiva percezione di pericolo che da millenni proviamo alla vista di un predatore”, così ci impedisca, per esempio, di iniziare una IV linea in un paziente con carcinoma del polmone metastatico e con attesa di vita < a 1 mese o di richiedere, per es., esami futili nel follow-up del carcinoma della mammella iniziale.

Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento, che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti e il valore in termini di impatto sulla qualità di vita e sulla spesa sociale (QUALY). In particolare, non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete – anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate.

Uno dei concetti espressi dalla green oncology è quello di favorire l’uso di terapie orali per ridurre l’impatto dei trasferimenti dei pazienti nei centri di cura per la somministrazione di terapie endovenose. Non c’è il rischio che i nuovi farmaci a bersaglio molecolare, soggetti a polimorfismi nell’efficacia e nel metabolismo, possano causare reazioni avverse che comunque richiedano l’intervento dello specialista o essere usati in modo improprio (scarsa aderenza alle indicazioni)?

La domiciliarizzazione delle cure rappresenta uno dei prossimi step dell’organizzazione dell’oncologia medica che reputo ineludibile non solo perché permette al paziente una compliance con le cure maggiori, ma anche perché essa rappresenta una maniera di impattare favorevolmente sull’ambiente permettendo una riduzione della produzione di CO2.

Tutto ciò evidentemente richiede una rivoluzione copernicana della concezione del medico (oncologo), il quale da una visione ospedalocentrica deve passare a una visione di “ospedale esteso” in cui si ravvisa la necessità di attrezzarsi con competenze nuove e diverse.

La prima competenza è quella dell’educazione del paziente, di concerto con i farmacisti e con il personale infermieristico; la seconda è attivare un sistema di monitoraggio a distanza di tali pazienti.

Se devo evidenziare qualcosa di assolutamente mancante attualmente, la mente mi va alla disponibilità ad attivare sistemi di valutazione a distanza di tali pazienti oncologici: credo che bisognerà, anche a livello di Società Scientifiche, approfondire il problema della semplice farmacovigilanza delle reazioni avverse, transitando a qualcosa di meno spontaneistico e più strutturato, in altre parole, a un’adeguata metodologia di sorveglianza post-marketing, che permetterà di garantire standard di safety internazionali per il follow-up dei pazienti oncologi.

Non v’è chi non veda l’irrinunciabilità dell’applicazione nella pratica clinica dei concetti dell’oncologia sostenibile che, nell’intercettare l’innovazione, impone innanzitutto un cambiamento del paradigma culturale, che sta alla base dell’approccio al problema cancro, non negandosi le oggettive difficoltà di pervenire a un successo globale e convincente, dal momento che si combatte con una patologia, come quella oncologica, sorprendentemente eterogenea e mutante, capace di adattarsi, secondo un perfetto modello di selezione darwiniana, alle molteplici condizioni ambientali di sedi organiche diverse.

Oggi è giunto il tempo di promuovere un ripensamento della governance delle cure oncologiche secondo un green model; e l’azione quotidiana della prassi degli oncologi si deve snodare attraverso scelte “di contesto” insieme agli altri attori della decisione (farmacisti, infermieri, psicologi).

Secondo il modello di oncologia “verde”, non è più posponibile né rinunciabile una specifica e meticolosa attenzione a un comportamento clinico “a tutto tondo”, dove l’etica conseguenzialista pervada i nostri processi di decision-making sia a livello diagnostico che terapeutico, e – senza dimenticarlo – anche a livello preventivo e riabilitativo.