
L’American Society of Clinical Oncology (ASCO) ha annunciato la designazione di David Kerr dell’University of Oxford come Editor-in-Chief del nuovo Journal of Global Oncology (JGO). Si tratta di una rivista “online-only” e open access che si concentrerà sui temi dell’assistenza oncologica e della ricerca ma sullo sfondo dei Paesi in via di svluppo. Un tema di cui talvolta si occupano altre riviste medico-scientifiche, ma che per la prima volta con il neonato JGO vede una intera testata dedicata. “Il Journal of Global Oncology andrà a riempire un vuoto nella letteratura internazionale in Oncologia Medica fornendo una piattaforma redazionale peer-reviewed, l’opzione per gli autori di pubblicare ricerca sul tema delle sfide che i Paesi in via di sviluppo devono affrontare”, commenta il Presidente ASCO Peter Paul Yu. E David Kerr aggiunge: “C’è un bisogno crescente di ricerca di alta qualità in Oncologia anche nei Paesi in via di sviluppo, e io sono onorato di supportare la vision dell’ASCO per migliorare anche l’assistenza oncologica in quelle zone del mondo”.
Oncoinfo ha interpellato sul tema due importanti esponenti del panorama oncologico italiano, Salvatore Palazzo e Lucio Crinò, che si sono sempre distinti per l’interesse per un’Oncologia inserita nel contesto ambientale e sociale e per l’impegno sul campo.
Salvatore Palazzo, Direttore dell’UOC Oncologia Medica del Presidio Ospedaliero Mariano Santo di Cosenza.
Che spazio c’è per un’Oncologia globale in Europa e in Italia?
Una nuova rivista dedicata ad una Global Oncology immagino si riferirà all’evoluzione dell’approccio epistemologico già definito “green”: vale a dire un’Oncologia nella quale il principio etico del “rendere conto” (accountability) non solo al paziente, ma anche ai familiari, alla società e all’ambiente dei motivi delle proprie scelte prevalga, nel decision-making dell’oncologo, rispetto al tradizionale modus operandi in condizioni di “one-to-one” con il paziente, vigendo oramai quel diffuso ambiente clinico-organizzativo che è il team multi-interprofessionale.
Ragionare globalmente sull’Oncologia può essere da stimolo per contrastare fenomeni di sovradiagnosi ed overtreatment?
Ritengo di sì. Tale approccio può portare infatti più facilmente a scelte appropriate e consapevoli, secondo una logica non solo evidence-based ma anche values-based, coerente con quel movimento internazionale del Choosing Wisely, orientato a evitare sprechi di risorse e ottenere un’oncologia sobria e rispettosa. Inoltre, la comparsa della nuova risorsa può fungere da stimolo presso le Società scientifiche oncologiche italiane ed europee per promuovere un confronto su questi temi.
Lucio Crinò, Direttore della SC di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliera di Perugia
Il lancio da parte dell’ASCO di un Journal of Global Oncology sancisce definitivamente un’Oncologia a due velocità (la clinical per i Paesi ricchi, la global per quelli poveri), oppure può essere di stimolo per ridurre il gap?
Le profonde differenze di natura economica e di organizzazione sociale possono essere colmate soltanto attraverso un lavoro di grande promozione culturale da parte dell’ASCO come Società internazionale di Oncologia nella quale frequentemente negli ultimi anni vedo la partecipazione di giovani oncologi dei Paesi asiatici (da tempo) e recentemente anche del Sud America e (in misura crescente) dell’Africa. Questo comporta la possibilità di creare nuove competenze nei Paesi giovani con ancora grosse tensioni sociali e fenomeni di povertà, ma nei quali sicuramente si potranno attivare dei nuclei individuali, che potranno realizzare esperienze per colmare il gap sul terreno dell’Oncologia. L’Oncologia è una disciplina necessariamente multidisciplinare, quindi ha necessità di un contesto nel quale svilupparsi sul piano non solo clinico ma anche di ricerca di base, di ricerca molecolare. Cose che nei Paesi poveri vanno ancora create. E non è facile, è necessario un profondo cambiamento sociale: devono essere messe al centro dell’attenzione la scuola, la crescita culturale e non mi pare che in questo momento in tanti Paesi del mondo questi siano tra gli obiettivi principali. Purtroppo la gente non lo capisce o, peggio, fa altre scelte.
Data la sua vasta esperienza nei Paesi africani, ha senso parlare di “ricerca” in Oncologia per realtà così drammaticamente arretrate sul piano assistenziale?
Ha senso se queste iniziative possono rappresentare il volano per la crescita di tutto un ospedale. Certo ci vuole l’impegno di un gruppo di ricercatori disposti a spostare ed impiantare altrove la loro esperienza, a fare da traino e crescere giovani ricercatori locali. Nella nostra esperienza africana ci siamo trovati di fronte una realtà con caratteristiche non modificabili nel breve tempo: un’aspettativa di vita intorno ai 50-55 anni; una mortalità infantile molto elevata; una mortalità da parto che non si è modificata negli ultimi 70 anni; un’incidenza elevata di tumori pediatrici, soprattutto quelli le cui determinanti biologiche non sono conosciute. È una sfida immensa su cui varrebbe la pena investire, per interesse e dimensioni del problema. E c’è chi sarebbe disposto a farlo, ma queste non sono priorità nei Paesi e per i governi del mondo. Il mondo occidentale pensa a mantenere il proprio livello di benessere indipendentemente da come questo è stato costruito e non mi pare ci sia alcuna volontà politica di considerare altri temi se non quelli della prosperità di una piccola parte del mondo (anche se questo avviene a scapito di tante altre). Certo c’è stato un progresso notevole negli anni. La Cina, l’India non sono più i Paesi di un tempo. Però non vedo uno sviluppo armonioso delle cose, mi sembra si vada avanti a strappi e per l’emergenza di nuovi Paesi che hanno forza politica e sociale. Il livello di ingiustizia, di corruzione e d’incapacità di programmazione a livello sostanziale – avendo come obiettivo le cose che secondo me (lo dico sia come oncologo che ha vissuto in Occidente tutta la vita, sia per le esperienze africane) andrebbero realizzate – non vedo qualcuno che in ambito delle grandi politiche mondiali persegua questi obiettivi. Su base individuale conosco molti ricercatori che sarebbero disposti, e lo faranno, ad investire in ricerca in Paesi del terzo mondo. Lo stanno già facendo, soprattutto in Africa. A Mwanza, in Tanzania, dove eravamo con l’Associazione “Vittorio Tison”, sono stati costruiti laboratori che andranno implementati ed è stato costruito un nuovo ospedale, al quale è stata donata un’unità di radioterapia. Queste sono cose che nascono da iniziative individuali ma che rappresentano un modello cui far riferimento. Secondo la mia esperienza possono essere un modo per far crescere una realtà, nell’emulazione e nella creazione di esperienze tecnologicamente avanzate.
Come medico impegnato nel raggiungimento di tali obiettivi, personalmente è più forte la soddisfazione per il contributo apportato – seppur non armonico e parziale – o la frustrazione derivante dai limiti che sistemi sanitari gravemente arretrati pongono al vostro operato?
Chi si impegna in queste attività, soprattutto se lo fa in maniera continuata, ha una chiara percezione sia della realtà che va ad affrontare che delle possibilità effettive di modificarla inserendo elementi di crescita. Sa bene che nella sua esperienza individuale il tragitto non può che essere breve, ma sa anche che il suo impegno può comunque essere determinante in quel momento e per alcune circostanze. Racconto sempre che l’ultimo giorno della mia prima volta a Mwanza, Valery, una dottoressa poi venuta anche in Italia che adesso sta facendo una specializzazione in radiologia a Dar es Salaam, mi mise nel portafoglio un foglio di carta da filtro sul quale aveva messo alcune gocce di sangue. Erano di un giovane pescatore del lago Vittoria, ricoverato in ospedale con splenomegalia, linfonodi ingranditi un po’ ovunque, per il quale era stato impossibile fare una diagnosi lì. Mi portai il campione a Perugia e nel laboratorio di ematologia furono in grado di estrarre il DNA dalle cellule tumorali e fare una diagnosi molecolare di leucemia mieloide cronica. Affidammo l’imatinib, un farmaco di ultima generazione che mi regalò Novartis, alle mani del Professor Amadori in partenza per Mwanza. Quando tornai lì, dopo un anno, il giovane aveva ripreso a fare il suo lavoro di pescatore, stava benissimo. È solo un episodio, ma può essere esemplificativo: certo non ho cambiato l’assistenza sanitaria di Mwanza, però per quel giovane, quel giorno, il fatto che fossi lì è stato decisivo. La frustrazione non ce l’hai perché sai quello che puoi fare, sai che non dipende da te e che la tua testimonianza può essere comunque molto utile in determinate circostanze.